Due categorie di immagini su tutto.
Entrambe nella terra che mi ha cresciuta, l’Abruzzo, con la sua doppia natura di bestiario e di Bibbia.
Una riguarda gli animali. Ci fu un’aquila trovata in mezzo al bosco. Ero piccola, avrò avuto 4/5 anni e lei gigantesca. Le avevano tagliato le ali. Un’aquila tutta torso. Ma gliele avevano lasciate accanto, in una posizione di apertura totale. Poi l’uccisione del maiale, le sue grida a fiotto aperto lì dove stava avvenendo tutto, lo scolo del sangue fino all’ultima goccia ed io che sognavo il sangue assorbito dalla terra riemergere dal fondo del lago a macchiarci tutti con dei lividi e vedevo Dio venire fuori dalle salsicce. Un lupo avuto da ragazzina, i nostri appuntamenti segreti e silenziosi che è stato tutto quello che per molto tempo ho saputo dell’amore.
La seconda categoria, un Cristo rimasto in piedi nella chiesa crollata con i terremoti. Un Cristo che è stato il primo vero corpo che potevo guardare mentre al mattino presto le vecchie nere del paese pregavano, biascicando come pipistrelli al buio, quel nudo fermo, bellissimo, con le mie stesse ginocchia. Sanguinante, silenzioso, compassionevole. Mi pervadeva.

E ho sempre pensato che la verità alla fine fosse così. Una verità che ritrovi nelle macerie, un miracolo sanguinante e purissimo che contemporaneamente confinava con le prede e i predatori del parco. Vicino la chiesa c’era lo strapiombo della foce del fiume da cui arrivava lo scroscio durante le preghiere. E da lì partiva il bosco.

Ho sempre avuto un grande Tu dentro di me e il mio luogo mi ha determinato sempre più profondamente.
La poesia è ed è stato l’animale da cui ho imparato un linguaggio comprensibile dentro queste cose, con in più una violenza avuta da bambina che ho codificato nel tempo, perché la mia memoria scolava dentro il corpo quello che non voleva ricordare. La poesia è stato ed è l’animale che confina direttamente con Dio, che ti porta sul dorso ma che sfugge anche, che devi saper ben guardare negli occhi ma che puoi farlo solo nei momenti in cui il rischio è altissimo perché tra l’essere amati e l’essere sbranati, il passo è appena un po’ più violento nell’amore.
Sono sempre stata un covo di segni, involontari e volontari.

Quando mi si chiede di presentare la mia poetica sono disarmata: non ho teorie da offrire e non ho motivi. Ho i miei fatti che sono le poesie, la mia selvaggina, e le mie opere che sono le mie preghiere. Ossia l’intero armamentario del mio corpo, questo sì. Ad interrogarle io stessa, aprirei delle voragini che inonderebbero le cattedrali e chi legge, a volte me compresa, non è pronto. Chi è pronto è già un testimone per sua stessa educazione e vocazione e sa che siamo qui per testimoniarci tutti. Questo per me è il grado violento della scrittura che nessuna prosa deve osare ammorbidire.
Le immagini che ho realizzato credo siano spesso più chiare delle mie parole, perché queste ultime portano un enigma non risolvibile, magnetico e anche molto fragile. Non si fissano. Come ti avvicini per dire appena un po’ di più, come circumnavighi l’enigma sbagliando di un grado le nebulose coordinate, esci fuori magnetismo, diventi il centro della distanza e il linguaggio collassa.
Quando mi si dice se mi occupo del tema del corpo, mi sembra un argomento che desidera la mente, non il linguaggio.
Io so che cerco di accoppiarmi disperatamente con qualcosa che mi completa in maniera invisibile. È questo il corpo? Il linguaggio per me è questo tentativo. Ma il linguaggio tutto, anche quello fotografico, scultoreo, performativo: tutto lavora ad un’unica opera che è il motivo per cui resisto nello strazio della parzialità, muovendomi tra mondi.

C’è una parola nascosta nell’universo da cui sono traducibile, mi dico, lo so, voglio unirmi a quella parola che sì, è come un corpo che da piccola, mentre affondavo nel lago non riuscendo a nuotare, ho visto sottacqua illuminato da una chiarezza che viene dalla perdita. Mi unirò a quel corpo, questo l’ho sempre saputo.
Si dice che assomigli a ciò da cui ti fai permeare. E così a volte credo di essere corpo solo in virtù di quel corpo a cui unirmi. E di essere diventata un linguaggio, non di usare il linguaggio, proprio in virtù di quell’accoppiamento. È un accoppiamento con un vivo, con un morto? Dentro di me è deposto un corpo vivissimo ma non si muove. Anche se a volte ho avuto timore che fosse solo una carcassa residuale dell’osso in più della mia coscienza che avevo disseppellito vicino al lago, e che non aveva sopportato una certa potenza della fragilità del linguaggio nel mondo.
Se il linguaggio fosse una questione chiarita, non ci sarebbe “sporcatura” con il divino, né il bisogno di aggiungere sempre alcuni tragici chiarimenti in nota, come spesso facevo in passato prima di capire che la scrittura non è un mio arnese o un tramite, che non voglio che la mia penna sia una teleferica. Sono io una teleferica.
Trasformarsi talmente tanto nella scrittura di cui portiamo la promessa (o la minaccia?), così tanto da scrivere senza scrivere. Da scomparire. La scrittura non si immagina. Quando il rapporto con l’immaginazione viene reciso, l’atto è violento e la zona sacrificale libera una Zona in cui c’è sempre uno spazio ulteriore in cui la parola è necessaria. C’è sempre, in tutto, un enigma residuale. E questo che distingue il raccontare dalla poesia, direi quasi la scrittura dalla poesia. E di quello si va a caccia o ci fiuta. L’enigma si regge sulla caccia, sull’uccisione. Le parole sono le pelli degli animali che abbiamo cacciato o dei fiati che si sono condensati in assenza di corpo.
La poesia è un primordio a cui voglio ritornare. Questa è davvero l’unica cosa che so.
L’ultima parola dell’Apocalisse è Ritorna.

 

 

(testi da Corpo Finale)

Come sarà il corpo dell’uomo di Dio – dicevano
Un pesce?
Uno scontro tra un grido e il silenzio?
Sarà un nudo che gronda latte
Un fiato che viene a levigare un legno integrale.
Mormorerà come le nostre perdite?
Bisognerà nutrirlo con offese da perdonare
O avrà un fragile ossatura dentro una mano morale?
Sarà una condizione discorsiva
Sarà un fianco
Nascerai dal mio addome come una squama di corallo
O ti sfilerò dall’inguine come una vena bianca?
Se sbatto su una lancia subisci un tradimento?
Se mi colpisco, per sentirti, ti sfiguri in pieno viso?
Ti senti vivo
O incassi tutto, per non far rumore, anche tu.
Distingui i corpi, caro Palo Sfranto dell’Impero delle Croci
Dissangueresti lentamente chi mi ha toccato da bambina
O, dimmi, hai qualche pregiudizio sulla crudeltà.

*

Anche in quella occasione
furono milioni le distanze in anni luce
il carattere cuneiforme di stelle che non rispondono più
l’avanzamento della cosa intoccabile
posso definirla con un’apparizione
nel sonno profondo rilevo suoni
tracce di pulsazioni minerali
e dai muri una frequenza animale a spallate sorde
ancora scrosta violenze
Le leggi del mondo paiono parlare di un territorio
senza acqua, illeso, senza viaggio
che vorrebbe liberare la vita dalla sua connaturata speranza.
Per molto tempo anche i segnali visivi saranno dubbi
le percezioni, sarà dubbio il silenzio del plancton

saranno milioni le distanze in anni luce
ricordo che da bambina
dovetti tuffarmi nel lago
ed accertare la luce di un corpo sott’acqua
l’avanzamento della cosa intoccabile
e all’emersione la pelle del mondo pareva intatta
una crudeltà corporativa

raggiungerò quel corpo
mi unirò a quel corpo

E di nuovo, per molto tempo, dovetti smettere di scrivere.

*

Per un istante
Il buio della pupilla
Fu messo decisamente a fuoco
E fui trattenuta nell’aperto da un cervo
Un cervo che non potrei dire
Se fosse lui o io nella sua figura
Con tutto il pelo trattenuta
Al limite in cui il mondo animale
Infetta una dinamica di integrazione delle carni.
Si sono registrati diversi casi
– oltre il mio –
Di persone sopravvissute incredibilmente incolumi
Incredibilmente ancora tornite
Potrei quasi dire che non ne morì davvero nessuna
E in tale crescente esplicazione dei trapassi
Mi si chiese ancora se credevo in Dio.

Fu chiaro a tutti i linguaggi
Che stavo partendo

Senza domande si apre il bosco
E dice che c’è amore per me da quelle parti
C’è amore certo.
Sono stata triste mille anni prima di qui
Cercando di non sporgere l’aperto
Ma sto partendo perché c’è un amore certo
Per l’integrazione delle mie molte carni
L’ho messo decisamente a fuoco
E il suo nome è Solitudine.

*

Telesio

Rientrata a casa
la gonna ha preso a sbattere gli orli con violenza
tanto che ho dovuto ripetutamente calpestarla
e nel lobo parietale sinistro tre colpi di fucile
mi rimandarono ad una forma di trinità inattesa
potrei quasi dire un maiale
o certamente un sostituto giuridico che viene a seguire
la curva di quel che scrissi in Demonio, o del perdono.
Ora posso assicurare di aver sentito
il maiale gridare dal centro della nuca
elettricamente
o dalla carne che cuocevo sulla piastra
dall’olio friggeva proprio un grido
del quale non è possibile rendersi padrone.
Anche quando la bestia era nel piatto dei miei figli e parlavamo
i gesti parevano suoni criminali, eliminatori
e benché io sia immensamente più sicura a proposito delle necessità
tutto mi è parso grave più di qualsiasi altra cosa
e il clima, i costumi
la produzione agricola o della popolazione
crisi economiche politiche crisi
psicologie di moventi subissati di comprensioni
tutto mi pareva proprio criminale
e cercavo dal vuoto di pensare a Feuerbach
alla mitezza della pena
che sono sempre proteine, lo sono
tenere in conto anche parte delle mie montagne
dell’arte primordiale
ma un’esplosione quarta nel cervello
ha preso a far tremare le radici dei muscoli facciali
l’apparato dell’urina
ritenere fattori organici, ereditari
ritenere e intanto impugnare bene la parte del coltello
e mangiare tutto, e non avanzare, mangiare.
Tra i 4 e i 5 anni, nella camera scura dello scolo
contai fino a 700
lo sgocciolamento dal centro del porco ammazzato il giorno prima
Mi avrebbe ucciso?
e Chi lo avrebbe pianto? mi chiedevo
Quale forza avrebbe avuto il vendicatore
se mettevano di guardia una bambina?

Quella notte mi addormentai seduta e persino con il freddo
con le caviglie rigate dell’urina in parte trattenuta dalla gonna
e al risveglio
davvero lui non c’era più

e neanche con l’assenza lo credetti veramente morto

*

In qualunque luogo sarà il corpo
Là si raduneranno le aquile.
Per questo ti dico “Non Tremare”
“Non Tremare” sarà il tuo tuono.

Quando sarai morto, corpo mio,
perfettamente tenero
perfettamente quieto
perfettamente spaccato nel mezzo

Ricordati di me.
Raggiungimi.

*

È tutto qui il corpo chiesero?
poi presero ad accusarsi tra loro
a farsi bocca a bocca
a mimare qualche gesto invisibile
una mutilazione
uno smorzamento del linguaggio nelle vicinanze
e così spaziati da un urlo
spogliati dai nemici
con mani ed avambracci si accusavano
per la loro stessa gravità.
– ma tu da quale male vieni
con gli occhi così limpidi quando vieni così bianco?
forse anche tu hai un cuore acquoso
a cui necessitano una serie di purghe
una diligenza da infrangere
una mancata circolazione del tempo in te. –
Poi iniziarono a chiedere al corpo
qualche atto di apparizione
un gesto maneggevole
un fenomeno d’ira
un montaggio eccezionale.
– da quale appartamento invisibile
sei stato scrostato dalle pareti?
da quale letto hai recuperato le pelli
di un’eccessiva sudorazione
la secchezza di non essere guardati molecolarmente
qualcuno ti ha visto, hai chiesto aiuto
o sei arrivato qui con un’emissione violenta? –

poi presero a disertare lo spazio
a piangere una mortificazione
a portare molti lutti di abbandoni sepolcrali
presero polvere
e di nuovo si accusarono tra loro
si rimpastarono bocca a bocca
mimarono, mutilarono, smorzarono i linguaggi
e chiesero ancora
è tutto qui il corpo?

– qual è la tua immagine
ci somigliamo da che parte
se mi stendo su di te mi assorbi?
posso entrare o devo solo dimenticarmi
possiamo unirci mediante una stessa enunciazione

posso toccarti?
o in quale amore devo seppellire la tua forma verticale? –

*

Così sola
Così vicina a me
Cosi tremendamente vicina a me da rompere la stella fissa
Così addolorata del liquido
Così riversata nell’universo
Così lontana
Così lontana da me
Nei globuli di una costellazione.
Così universo.

 

 

nota bio-bibliografica

Tiziana Cera Rosco (1973), poetessa e artista, nasce a Milano ma, cresciuta nel Parco Nazionale d’Abruzzo, porta nella sua scrittura e nelle sue opere tutto il retaggio della sua terra paterna e il misticismo metaforico che viene dalle Sacre Scritture vissute in un luogo cosi particolare. Ospite di numerosi festival nazionali ed internazionali sia di poesia che di arte, per anni ha portato la parola poetica in luoghi di eremitaggio e solo tramite voce. Ha pubblicato: Corpo Finale (Lietocolle/pordenonelegge, 2019) è la sua ultima raccolta che racchiude 10 anni di produzione, Commento Alla Sette Ultime Parole Di Gesú Sulla Croce (Papero, 2017) Dio IL Macedone (Lietocolle 2009), Il Compito (La Vita Felice, 2008) a cura di Milo de Angelis, Lluvia (Lietocolle, 2006), Il Sangue Trattenere (Atelier, 2003), Calco Dei Tuoi Arti (Lietocolle, 2003) a cura di Giuseppe Conte e Giampiero Neri. Diversi sono i monologhi per teatro che accompagnano le sue opere artistiche. Lavora con la fotografia, la scultura e la performance.

 

ph tratta dal film Sacrificio (Offret) – 1986 – scritto e diretto da Andrej Tarkovskij, vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al 39º Festival di Cannes. ph tratta dal film Sacrificio (Offret) – 1986 – scritto e diretto da Andrej Tarkovskij, vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al 39º Festival di Cannes.

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