tre domande, tre poesie
“Nella nuova opera poetica, Debutto nell’oblio, Interno Libri, Alessandro Franci compie rivisitazioni di un passato che persiste nel presente con implicazioni, contaminazioni e condanne; periferie fisiche e metaforiche, persone e cose elencate, consegnate a una memoria personale e collettiva. La ricerca di un equilibrio che bilanci un passato così presente e un nuovo tempo, prossimo al futuro che sarà. Un processo che non prevede riconciliazioni, né nostalgie, oppure vani tentativi di giustificare o perdonare, ma casomai, appunto l’oblio, cioè il vero debutto in un luogo nuovo, mai esplorato; passaggio essenziale che permetterà una visione reale, incontaminata, per quel tempo che resta ancora da compiersi”.
Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “Debutto nell’oblio”, meglio: in che modo la (tua) vita diventa linguaggio?
Dividerei la domanda a metà, cioè in “scintilla” e in “linguaggio”.
Scintilla: il corpus iniziale, diventato poi Debutto nell’oblio, comprendeva altre quaranta poesie confluite nella precedente raccolta La lingua convenuta, Vydia Editore 2022. La materia prima dei due libri, infatti, è la stessa, ma è anche l’ingrediente che ho utilizzato nelle precedenti pubblicazioni; anzi si potrebbe dire, per questo motivo, che abbia pubblicato un solo libro fin dalle prime uscite, risalenti alla metà anni Ottanta. Quindi, altrettanto si potrebbe dire che, da allora la scintilla c’è sempre stata; oggi ormai è quasi una lampada votiva che dovrebbe fare il suo vero debutto nell’oblio spegnendosi, per riaccendersi, forse, su altra materia. La scintilla (o lampada votiva che sia) è la periferia, cioè il pittoresco curioso, il second’ordine, l’intrasformabile o il trasformato; non soltanto quindi il territorio antropizzato a margine della città, ma anche ciò che questo impone, cioè l’incomunicabilità, la cecità, i silenzi, o l’ovattata e perpetua ossessione di voci, suoni, immagini oscuramente incombenti.
Uniformarsi, rendersi complici, significava infilare il muso nei bidoni come i cani delle discariche; la non partecipazione, invece, facilita l’osservazione. Il non far parte di, contribuisce all’isolamento, all’assenza. Raboni racconta di una finestra nella casa abitata da bambino a Milano, dalla quale vedeva la vita fuori dal vetro e afferma che la poesia, per lungo tempo, se l’è immaginata così, cioè un vetro oltre il quale si vedeva tutto, un vetro tra sé e la vita, che lo isolava e lo proteggeva. Credo di aver adottato, senza saperlo, un sistema non troppo diverso, cioè quello di un vetro ideale di una finestra ideale affacciata sul magma della periferia reale e metaforica, quella del fango e dei liquami, dei parcheggi, degli asfalti, degli enigmatici messaggi che ho tentato, per anni, di interpretare.
Linguaggio: nella periferia si parlava una lingua a sé, (oggi gli idiomi sono tanti) reclusa nell’informazione essenziale, frettolosa, sufficiente allo scambio di concetti chiari e semplici. Era una lingua che non si rivolgeva più alla campagna ormai lontana, senza però instaurare una relazione vera con la lingua urbana. Mancava del corredo di un pre-avvenimento e di un post–avvenuto. Era una “lingua convenuta”, un codice segreto; parole convenzionali, disinnescate e perciò innocue.
“Piove” non era solamente una constatazione di fatto, se pioveva, ma chi lo annunciava, intendeva (forse) dire anche: “senti che buon odore di erba bagnata, senti il rumore delle gocce sulle tegole”, ma non l’ha mai detto.
Da questa cultura con radici così poco profonde, mi è stata passata una lingua approssimata, incompleta, bassa e chiusa nei cortili, nei sottopassi, nelle strade che finiscono nel nulla, nelle case spoglie. Si viveva nell’ignoto di poche frasi e, per quanto possibile, tutto ciò che era enunciato era anche diligentemente ascoltato, ci si atteneva alle istruzioni, come quelle per il funzionamento di un elettrodomestico.
Per anni ho ascoltato questa povertà di argomenti, di espressioni, di sentimenti. Era necessario scovare ciò che precedeva l’asserzione “piove” e cosa la seguisse; una sorta di interpretazione o traduzione, con un suo proprio linguaggio. Ma, lo sappiamo, siamo sempre in periferia o la periferia di qualcosa, di qualcuno e forse per questa ragione si continua (o almeno per me è stato così) a cercare, tentando di decrittare i messaggi, catalogare i reperti.
La poesia è un destino?
Più che a un destino, mi viene da pensare a uno dei suoi effetti, i postumi di qualcosa: un ematoma, un trauma qualsiasi, o altra infermità all’apparenza più lieve. Nanni Cagnone nei suoi “Cattivi consigli” dice: “Quando le cose vanno male in pratica, ci affidiamo all’identità della conoscenza – ci si dà alla teoria.” Mi viene più facile immaginare una sorta di corto circuito tra la volontà e l’ineluttabile. Pessoa, ad esempio, affermando che non vuole né la morte né la vita, dice di desiderare un qualcosa “che brilla nel fondo dell’inquietudine, come un diamante possibile nel fondo di un pozzo in cui non si può scendere.” La poesia, quindi, mi piace immaginarla come una delle varie strategie di contrasto alla sorte, inutile quanto si vuole, soccomberà, certo, (se non in forma individuale, in senso generale) ma non dovrà essere complice o asservita, dovrà tentare insomma di opporsi sempre, senza limitarsi a sottolineare, a fotografare l’evidente, a vivere nella commozione cronica; paradossalmente (almeno per quanto mi riguarda) dovrà cercare di difendersi dall’oblio.
Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare tre poesie dal tuo libro; e di queste scegline una per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere (nel contesto del libro che l’accoglie).
I numeri all’inizio di ogni poesia indicano la loro collocazione all’interno delle varie sezioni che, in totale sono sei: Senza tempo e nomi, I luoghi fedeli, Collezioni, Dediche, Questo presente e Debutto nell’oblio.
Di queste, per rispondere alla domanda, sceglierei la numero 11, qui riportata per prima, perché oltre a essere tra le più lontane nel tempo, rispetto al lavoro complessivo, è anche, almeno per me, l’immagine di una periferia ricordata, sia in una precisa realtà geografica, sia in una delle sue tante contraffazioni dovute proprio al ricordare, in più mi pare abbastanza comune, nel suo complesso se non proprio nel dettaglio, e non troppo lontana dagli attuali degradi.
11.
I ferrivecchi, le auto smontate
i frigoriferi abbandonati
i boiler sfondati, taglienti di ossidi rossi,
i laminati delle coperture
dove le ruggini mordono i pali,
nelle discariche rifugio delle serpi
di cani a rovistare con i musi nei bidoni
nei tempi infiniti lungo le scarpate
prima della strada e dei segnali luminosi.
2.
La saliera in vetro a due vaschette
i tappi di ferro con i fori
sul tavolino bruno tarlato ai bordi
e il centrino bianco d’uncinetto;
la brocca di peltro nella penombra
per le tende spesse della veranda
prima della vita che preme fuori.
1.
La quieta insidia di una voce
è resina viscosa, cappio per preda inseguita,
agguato di tagliola,
dubbio di salvezza e speranza di cattura;
riaffiora sopra le losanghe del paesaggio
nella veste sonora
come un miraggio di palio o di vittoria.
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Alessandro Franci è nato a Firenze nel 1954 dove si è laureato in architettura. Con le Edizioni “Gazebo libri” – Firenze, ha pubblicato: I segni terreni (1984), Senza luogo (1985), Delitti marginali (1994), La pena uguale (2009). Nel 2013 ha pubblicato per “Gingko edizioni” – Bologna, il romanzo Il mese della Luna. Con LaRecherche, gli e-book: La Luna è nuova – poesie 1980-86 (2012) e Sbagliando strada (2017). Nel 2020 per SEF “Società Editrice Fiorentina” La fragilità dei pesi (prefazione di Caterina Verbaro) – finalista al premio PontedilegnoPoesia 2021. Nel 2022 per “Vydia editore” – Macerata, La lingua convenuta (Prefazione di Alessandro Fo), premio Gianmario Lucini 2021-2022. Nel 2024 per “Interno Libri Edizioni” – Brindisi, Debutto nell’oblio. È presente in varie riviste e alcune antologie. Dal 1983 al 1993 è stato redattore della rivista “Salvo imprevisti” e dal 1993 al 2023 de “L’area di Broca”. (Entrambe dirette da Mariella Bettarini)