tre domande, tre poesie
Mettendoci in ascolto testimoniamo noi stessi. Restiamo «sospesi nella giusta penombra/ mentre la verità setaccia i versi». Attraversiamo «un vagare segreto/ delle domande tra la terra e il cielo». Percorriamo perimetri di destino al quale siamo inchiodati, «Ma ecco la curvatura imprevista, il bene placido/ che devia dal percorso studiato/ e lì ripone il fantastico – lì s’annida/ solitaria e altera la rivelazione,/ la vita inerme che si fa scintilla». Parliamo dell’incantevole libro “L’ora delle verità” di Simone Zafferani (“tra le voci più alte e preziose della sua generazione”, scrive nella postfazione Giorgio Ghiotti con il quale conveniamo), pubblicato da “peQuod” nella collana “Rive”. Zafferani ci consegna un atto poetico che valica le curve del futuro. Nella «geografia mossa» dell’esistenza, tra folgoranti intuizioni, coscienza, deflagrazioni, silenzi perfetti, disarmi, gemmazioni, cieche vibrazioni, sogno, sorte, fare, essere, l’assoluto è l’interlocutore.
Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “L’ora delle verità”, meglio: in che modo la (tua) vita diventa linguaggio?
L’ora delle verità, come libro, è andato formandosi lentamente. Le poesie che lo compongono vanno dal 2015 al 2021. Si sono accumulate lungo un arco di anni in cui la scrittura dapprima latitava, sollecitata di tanto in tanto, e spesso su commissione, e poi si è andata depositando secondo direzioni diverse. Infatti è stato scritto che il libro contiene in sé una pluralità di sguardi e di angolazioni visive (le cartoline urbane, la voce oracolare della montagna, la quiete apparente del paesaggio campestre e del lago, fino alla proiezione dell’io nelle vite degli altri, o di altri sé). Quando si è presentata l’occasione della pubblicazione, ho iniziato a raccogliere il materiale per allestire il libro e solo allora ho colto (e in qualche modo ho restituito lavorandoci) l’organicità di quanto avevo scritto. Complessivamente posso dire che la scintilla di questo libro, che si colloca anagraficamente prima dei miei 50 anni, è stata il bisogno di restituire le verità – parziali, provvisorie – cui sono giunto anche attraverso quello sguardo obliquo e quella visione terrena che sono per me alla base della scrittura di poesia. La mia vita, infatti, diventa linguaggio quando riesco a trovare quel particolarissimo equilibrio di percezione, agnizione, emozione necessario per scrivere versi, accorgendomi dopo che solo i versi avrebbero potuto portare in luce quella verità. È una condizione rara per me, per questo io non sono un poeta torrentizio. Ho bisogno di tempo, di concentrazione, di sedimentazione affinché la scintilla diventi fuoco e possa farsi poesia.
La poesia è un destino?
Credo di sì. Ma dovremmo prima accordarci sul vero significato della parola “destino”. Mi è stato fatto notare che è la parola più ricorrente in questo libro. È un concetto che mi affascina da sempre, e nel quale ho qui riflettuto anche nella sua contrapposizione al concetto di fato. Per tornare alla poesia, credo che sia una chiamata, che ci arriva a un certo punto della nostra vita (nel mio caso prestissimo, a 7 anni), o che forse si mette sulla nostra strada. Non è un destino facile perché ci restituisce anche verità dolorose, spesso tragiche, ma in qualche oscuro modo salvifiche, non sul piano esistenziale ma su quello delle sorti collettive. Penso che la misteriosa e potente bellezza della poesia sia una risorsa per la conservazione e per la trasmissione della verità e della memoria di questo mondo sempre più disorientato.
Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare tre poesie dal tuo libro; e di queste scegline una per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quando “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere (nel contesto del libro che l’accoglie).
Talvolta ciondoliamo intorno a un verso,
facciamo di un bocciolo una credenza,
esercitiamo l’attenzione a un gesto
come chi prega o scrive o mette mano
a una sua perseverante lontananza
mentre ci aspetta l’abisso della notte
che infonde pace pena lutto e vita.
Ma il giorno è questa nascita polare
equinozio di anelito e memoria
in cui resiste un io pulviscolare,
il giorno ruota attorno ad un suo asse
invisibile di forza e di fortuna.
L’attesa è il farmaco prescritto
ma noi ci prodighiamo in molti riti
come magneti o frammenti di un collasso
incalcolabile ormai nella distanza.
Sempre dovremo scegliere la forma
e descrivere il transito e l’impronta,
come in un firmamento ancora in forse
si fa stabile la voglia di restare.
*
C’è un tempo dopo il tempo della vita
nei battiti sospesi sopra l’ombra
che qualcun altro proietterà per me
sulla solitudine del campo.
Io semino, dissodo, dissotterro,
zappo, concimo, raccolgo, innesto, mieto.
Posso soltanto curare e provvedere.
La previsione non è che presunzione
e l’immortalità è la nostalgia
che ho già di questa poca terra.
Resterò in altra forma, impianto, eco
perché quello che nasce mi divarica
e quel che muore ruota su se stesso,
materia su materia attraversata
dal mio ricordo.
*
Come una guerrigliera
una ragazza sventola due bandiere colorate
sfidando il traffico di una sera piovosa di aprile
all’incrocio di piazza del Bel Respiro.
L’esibizione ha luogo anche per un solo spettatore,
un guidatore distratto e frettoloso.
I colori saettanti nell’aria hanno la forza di un oltraggio
all’insistenza della pioggia, a una primavera scomposta,
al tempo metamorfico dell’attesa.
Impassibile la ragazza esegue la sua gioia
calibrata su tempi rapidi eppure
incurante di ogni scadenza
perché la gioia è stare in quell’incrocio
come nel centro di sé.
Parlerò della terza poesia. Come in quasi tutte le poesie contenute nella sezione intitolata Cartoline, la poesia è nata da una visione urbana, cioè da una scena vista (in altri casi immaginata, o sognata) in uno specifico contesto urbano. La visione di questa giovane giocoliera, che occupa uno spazio e un tempo che per altri sono di pura attesa, e li occupa con la piena e consapevole adesione ai propri gesti, mi ha restituito il senso della gioia, intesa come essere nel centro di se stessi. Questa visione si è cortocircuitata con alcune riflessioni che andavo facendo e che trascrivo qui da certi appunti presi in un quaderno durante un corso: “Scopo della vita non è funzionare e non è essere felici. Non esiste un diritto alla felicità ma esiste un diritto alla gioia in quanto la gioia è stare nel proprio centro. Scopo della vita è assumere la propria forma, diventare quello che siamo”.
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Simone Zafferani, nato a Terni nel 1972, vive a Roma. A partire dagli anni novanta, sue poesie sono uscite in riviste, antologie, plaquette ed edizioni d’arte. Ha pubblicato i libri di poesia Questo transito d’anni (2004; Premio Lorenzo Montano); Da un mare incontenibile interno (2011; finalista Premi Laurentum e Sulle orme di Ada Negri); L’imprevisto mondo (2015); L’ora delle verità (2023; Premio Giulio Angioni). Ha scritto insieme a Paolo Camilli il testo teatrale Per colpa di un coniglio (2017). Collabora con alcune riviste letterarie occupandosi di poesia contemporanea.
(la versione ridotta di questa recensione/intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 05.05.2024, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).