(primo capitolo, “Del trionfo dell’omologazione, e delle altezze sublimi.”, del saggio inedito, “Il bello è brutto, il brutto è bello: il nuovo mondo.” di Dario Matteo Gargano)
Majakosvkij nella sua lirica All’amato me stesso dichiarava la frattura tra il proprio sé e il mondo: dove trovare un’amata uguale a me? L’assenza della realizzazione dell’ambizione è la sola verità che possa testimoniare la natura di questo mondo.
Un poeta, invero, riesce sempre a straripare i propri confini spazio-temporali. La stessa cosa si può anzi dire di ogni grande artista: egli è sempre valido, in quanto è quella voce nuda che è riuscita a trovare un canale per gridare all’uomo la verità sull’uomo al di là di ogni spazio e tempo. E così anche leggere Shakespeare è leggere l’eterno. Il poeta, l’artista totale, infrange la psicologia sociale, distrugge ogni illusione distorta dall’ottimismo emotivo per rivelare e rappresentare la realtà della tragedia che è la vita.
“La vita è una storia raccontata da un idiota, colma di suoni e furia senza significato”, basterebbe questo bruciante proclama esistenziale macbethiano a dirimere tutta l’inutile fanfara prodotta dall’ossessiva cultura mediatica quotidiana, retta o (mal)diretta dai cosiddetti operatori “culturali” improvvisati, che adesso – rispetto al passato – hanno tra le mani armi di comunicazione ancora più amplificanti: i new media, i social.
Chi sono questi operatori “culturali”? Si potrebbe pensare ai giornalisti. Ma a questa categoria, nevvero, ne è sortita fuori un’altra, quella degli influencer, termine che implicherebbe già di per sé l’immagine di un appestatore di tendenze, di mode a scadenza, di ideologie malconce e vacue, insomma un imbrattatore di anime, la causa di una influenza virale social/sociale all’anima.
Il simile attrae il proprio simile, quasi senza appello: non è necessario riscrivere fedelmente quanto ci ha lasciato Erasmo da Rotterdam nel suo intramontabile Elogio della Follia: difficilmente il diverso attrae il diverso. Perché diversamente non esisterebbe la massa ma piuttosto una distinzione chiarissima, come i singoli strumenti di un’orchestra, come nello spettro della luce le cui sfumature cromatiche possono essere distinte infinitamente. La massa è piuttosto un tutto indistinto: il trionfo dell’omologazione. La traccia spirituale e profetica di Pasolini non si può dissipare, ma solo ignorare come maledizione che ci si autoinfligge, di spinte o di sponte.
Ad un’occhiata più lucida e vispa, cosa riesce a produrre la nuova cultura digitale – punto fermo della nuova Era dell’Acquario – se non la nitida rappresentazione del dilagante pressappochismo e dell’abiezione culturale portata agli estremi livelli da quando internet ha preso il sopravvento sulla vita quotidiana?
La vita la si vive osservandone le dimensioni: l’altezza e la bassezza, misura per misura, con una sensibilità che si può affilare sempre più, un po’ come la migliore spada pronta a saggiare la superficie del nemico da annientare.
Le tre streghe del Macbeth non avevano predetto solo il destino del vassallo del Re Duncan, ma anche la storia dell’estetica occidentale odierna, quando hanno pronunciato le fatali parole: il bello è brutto, il brutto è bello.
Cos’è stato partorito – tanto per cominciare – di memorabile e di inscalfibile in questo nuovo millennio? Qualcosa che sorpassi la gloriosa cultura europea e occidentale già piena di meraviglie insuperabili?
È uscito un nuovo August Strindberg? Un nuovo Joyce? Un nuovo Lacan? Un nuovo Kubrick? Un nuovo Leonardo? Qual è il nuovo architetto di Dio dopo Gaudí? C’è un nuovo Woody Allen? Qualche nuovo Christopher Wren? Qualche Paganini dopo Malmsteen? Un Mozart del XXI secolo?
La produzione di un capolavoro è sempre la prova regina. La domanda è: dove trovare la grandezza? Quelle altezze sommitali nelle quali il fiato si fa corto per l’emozione del sublime, per l’esperienza di qualcosa che travolge l’immaginazione, il vivere quella cosa chiamata Sindrome di Stendhal: ecco cosa dovrebbe riuscire a produrre un capolavoro, toccare le vette dello spirito, ad altezze sublimi e incalcolabili.
Chi è l’erede del Notre Dame de Paris di Victor Hugo? Quale equivalente della Divina Commedia esiste nel nuovo millennio? C’è una nuova avanguardia abbastanza convincente da imprimersi come movimento di uno spirito che guarda alla virtù? Devo certo anche dire che, sul fronte del vizio, il grosso di quanto avviene quotidianamente è un’offesa al vizio stesso: il vizio stesso esige dignità da parte dei praticanti. La facile rappresentazione è mera smania di vanità egoica, è masturbazioncella narcisisticheggiante.
E poi, già che siamo in tema: i registi. Poveri nelle idee, lapalissiani nei contenuti, costretti a filmare l’ovvio per tirare avanti, sconfessati nella ricerca – anch’essi – del denaro in nome di un’esistenza totalmente incentrata sull’ardere per la materia. Ecco un’altra categoria di aderenti al brutto contrabbandato per bello. Difficile trovare una scheggia di eterno quando ci si ostina a farsi fare a pezzi dal conformismo di massa. Il compromesso per giungere alla massa è l’autocondanna della propria piccola e infinitesima libertà che ci è stata concessa dall’universo.
Per parlare di una certa attualità, al momento in cui scrivo, si è passati da Barry Lyndon, a certi attorini e attricette nostrani impegnati nella banalità di un film comico dedicato ad un grande personaggio letterario italiano, con boutade così elementari e tristi da dover pensare che Dio oltre ad aver abbandonato il figlio sul Golgota, ha deciso di abbandonare anche l’estetica mondana a sé stessa, tenendosi per sé tutto il sacro splendore, e forse non a torto. Chi vorrebbe concedere il proprio oro invano?
* Il pubblico *
Più di dieci anni fa ormai, in un mio spettacolo teatrale avevo scritto questa battuta: Artisti di merda? Pubblico coprofago! I gusti dell’individuo nonostante vengano manipolati e plagiati dall’esterno, possiedono sempre di base una tendenza ad aspirare alle scorie dell’esistenza oppure alle vette del bello. Vi è un plateale distinguo tra Caravaggio e Bansky: si vede, e si sente, laddove si abbia visione e sentore. Ma la celebrazione sembra sempre più importante del motivo stesso della celebrazione.
In fondo, il pubblico rimane sempre la massa, il gusto indistinto. Per definizione la massa è spiritualmente debole e lo è proprio nella sua forza sociale di insieme spaziale attraverso cui occupa l’esistenza.
In mezzo a tutto ciò, i tanti addetti ai “lavori”, sfaccendati come sono, hanno firmato la loro condanna esistenziale e artistica: hanno rinunciato alle altezze dello spirito, per piegarsi all’orrida mediocrità umana, rinnegando anche la propria ribellione alle misere mode, ai marchi che alienano e spersonalizzano il singolo consumandolo, piuttosto che dotarlo di un virtuoso senso del gusto.
La morte dello spirito è il conformismo, forse troppo inconscio – cioè pericolosamente spontaneo – alle ideologie vaghe, ai concettazzi espressi dalla prima sinistrata di turno che conduce qualche programmino senza pretese – ma con tanta presunzione – su una rete nazionale mantenuta dalla selva dei contribuenti italiani.
Nelle Inattuali più di 120 anni fa, Nietzsche aveva già avvertito come i giornalisti e l’ottimismo sarebbero stati i mezzi che avrebbero sfasciato la società nel suo spirito. Il punto rimane chiaro: a cosa serve un cocciuto e compulsivo avanzamento tecnologico freddo se lo spirito e l’uomo stesso rimangono ciò che sono da Adamo ad oggi?
Abbiamo sempre un Caino che nasce, e una povera sventurata primipara contenta di aver messo alla luce chissà quale nuovo criminale! Ma io vi avverto: non vi è quasi mai carcere per i criminali dello spirito, vi è per soprammercato la celebrazione!
Ecco: il conformismo: sposarlo. Talvolta senza nemmeno accorgersene – insisto – pur di trovare una collocazione, un posticino sicuro, una simpatia, una accettazione all’interno di questo coro farisaico inzuppato di ideologie preconfezionate a buon mercato: ecco l’ambizione dell’artista del nuovo secolo! A dire la verità è l’ambizione inconscia di ogni nuova generazione lasciata al macero dei comunicatori.
In copertina The False Mirror, René Magritte, 1928 © Gandalf’s Gallery