Pietro Guccione, Forma vagante l'estroverso x art raf belfiore
Pietro Guccione, Forma vagante

Alla fine giunge sempre una resa dei conti. Un appuntamento improcrastinabile con la vita, il destino e l’avvicendarsi delle cose che ci pone come di fronte ad uno specchio. Ci osserviamo e guardiamo noi stessi senza riconoscerci. I contorni della nostra personalità, così precisi, chiari e netti appaiono d’un tratto nebulosi, indefiniti. Sentiamo di non appartenerci più. Ci cogliamo come “altro da noi”, temiamo tale condizione di estraneità a noi stessi e ne patiamo la conseguente dissociazione come un’interna lacerazione.

Possono le certezze sulle quali avevamo creduto di costruire noi stessi crollare all’improvviso, sgretolando fino all’ultima particella atomica il nostro essere? Può questa lenta, ma irrefrenabile frana aprire prospettive di crescita e dunque di riedificazione a partire da un annichilimento come azzeramento totale?

Queste domande affollano la mente spingendola a trovare qualche risposta capace di dare un senso allo smarrimento che naturalmente ne deriva. La scoperta e la successiva consapevolezza dell’umana fragilità può agire, paradossalmente, come alchemica panacea per un rinvigorimento della personalità e delle sue sfumature.

L’abbandono della routine, così confortevole nella sua ossessiva e metodica ripetizione apre prospettive nuove e quasi abissali così come l’abbandono degli affetti, della famiglia, dei luoghi d’appartenenza, dei suoni, i colori, gli odori e persino i sapori della propria terra. Quella terra amata e odiata con pari intensità, criticata, osteggiata, oltraggiata e vituperata con astio e cipiglio. Quella madre un po’ strana, una madre corrotta e senza onore, ma pur sempre “madre” e “genitrice” di ciò che siamo, non si può dimenticare, non si può non amare con violenza viscerale. Trovandomi in un contesto estraneo, ignoto, a tratti ostile, non posso fare a meno di pensare alla purezza cristallina del cielo di quella madre adesso lontana, di quella terra infuocata dal sole e bagnata dal mare, insudiciata da mafia e corruzione, caratterizzata da un ontologico e schizofrenico manicheismo che la rende insieme nobile e volgare, pura e viziosa, sontuosa e meschina nello scintillante candore dei marmi contrapposto alla nera asperità della pietra lavica che la ricopre. Quella Sicilia che ogni buon siciliano passa mezza vita a insultare, ma che non smette mai di amare profondamente, portandosela dietro nei pensieri, nel cuore e nel sangue. Quella Sicilia madre e meretrice, luce e tenebra, genio e sregolatezza, croce e delizia, riparo e casa del mio animo affranto e lacerato dalla sua lontananza. “Sicilia, bedda mia, terra d’incantu, terra d’amuri e di lu sentimentu. Cu ti lassa, ti lassa con lu chiantu e quannu torna ridi ed è cuntentu” [G. Formisano].

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