Io sono nato tra le dolci e sinuose colline dell’Oltrepò Pavese, una bellissima zona nella parte più a sud della Lombardia, dove i vigneti si perdono a vista d’occhio tra le vallate che si susseguono una dopo l’altra fino alla punta estrema della regione. Sono un ragazzo di campagna, insomma. E della campagna porto impresso nel cuore il ricordo dell’infanzia e della giovinezza, il chiaro segno di un mondo che mi appartiene. Ora che vivo in città da ormai otto anni ho quasi smarrito il senso delle stagioni che riconoscevo bene ogni volta che l’aria cambiava portando con sé profumi freddi o caldi, secondo che i mesi fossero caldi, freddi o miti. Ma una cosa su tutte mi manca: non sento la pioggia cadere. Qui in città la pioggia è una specie di disgrazia, una calamità, oserei dire quasi un’avversa forza del male, visto che la gente, appena piove, si lamenta come se fosse impossibilitata a fare alcunché. Ma a me la pioggia manca. La mia pioggia. Chissà per quale strana e arcana struttura della memoria, sento ancora nitidamente certi sentori sul palato che mi annunciavano i sapori che l’uva d’autunno o le fragole in primavera avrebbero da lì a poco fatto la loro comparsa. Ma una cosa su tutte mi appare come un marchio, un tratto ineludibile che per me significa la campagna: il gusto in bocca e nel naso della pioggia. Oh, come ho ancora davanti agli occhi le mie care colline di ottobre, quando dalla finestra, in una quieta giornata piovosa, restavo ad ammirare i colori caldi della campagna che mi si apriva tutta larga e spaziosa dalla finestra di casa: l’ocra, il carminio, l’arancio bruno, il cremisi, il marrone e tutte le infinite sfumature che la pioggia come una mano precisa sapeva disegnare sui pampini e sui filari dei vigneti che rigavano il dorso della campagna. E i fossi, i miei cari fossi! Stavo ore a guardar scorrere l’acqua dei fossi, mi domandavo dove mai finissero quelli che per me erano piccoli fiumi che mi sembrava dovessero sfociare da qualche parte. Me la ricordo bene, la pioggia. La sentivo come una nenia, scendere copiosa o più rarefatta di notte, mi accompagnava come un canto, mi sembrava che finché ci fosse stata la pioggia, avremmo potuto avere la campagna e le ciliegie, l’uva, l’erba nei prati, i boccioli sugli alberi, le carote nell’orto o i campi zuppi d’acqua. Spesso stavo fuori apposta quando pioveva e mi sentivo preso tutto, avvolto in una quiete distensiva, perché a me sembrava che la pioggia rallentasse tutto. Avevo la sensazione che tutto fosse più chiaro quando pioveva, che la vita si mostrasse a una velocità per cui potevo vederla e capirla. Se non mi credete pazzo ho quasi la sensazione che si potessero perfino vedere cose che normalmente non vediamo quando c’è il sole: i pensieri della natura. Una volta però anche qui in città mi è capitato per un attimo di provare una sensazione simile. Era sera, pioveva a dirotto e io ero uscito in cerca di un po’ di latte a uno di quei distributori automatici che funzionano 24 ore su 24. Non c’era nessuno, l’acqua cadeva a secchiate. Tornando a casa mi sono fermato per un attimo a guardare dentro una grande pozzanghera formatasi sull’asfalto. E lì dentro ho visto ribaltato il cielo di notte, i grandi palazzi della città, le luci dei lampioni e perfino tutti i colori della notte che al buio non si vedono. Ho visto tutto il mondo in un po’ d’acqua. È una magia la pioggia, in fondo. Ve l’avevo detto.
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