«Il tuo cuore dice/ da dove vieni// pensa alla tua anima,/ che ti ha dato sorgente/ prima della nascita». Versi scelti “Innue”, la prima traduzione italiana delle poesie di Joséphine Bacon (pubblicata da Interno Poesia, con il sostegno del Canada Council for Arts). Dall’esordio ai versi più recenti, un itinerario antologico che svela nitidamente la poetica dell’autrice quebecchese, sensibile ambasciatrice della cultura Innu. Come scrive la curatrice del volume, Francesca Maffioli (nella foto di Anna Arzuffi), l’erranza è la cifra dell’esistenza per la Bacon. Una poetessa «Di fronte all’infinito» che si lascia condurre dalla «notte stellata», dalle tante età della propria anima, che protegge le proprie radici portandosi fino all’orizzonte, benefattore «Di una terra/ Senza fine del mondo», che offre parole imperiture («quelli che verranno/ l’intenderanno»), che sa «essere sola per ascoltare». Una poetessa le cui visioni assomigliano «a una pace/ che si batte/ per la sua tranquillità», ricordano origini che non la «lasceranno mai», preghiere, attese, incantamenti e canti, «Nella pelle del tamburo/ Affinché il sogno continui».
Con “INNUE” di Joséphine Bacon, inizio col chiederle: perché (oggi), dalla voce della curatrice, leggere questo libro? Cosa può la poesia “contro” la dilagante incapacità di ascolto e cognizione?
L’antologia offre una visione ampia, anche in senso diacronico, dell’opera di Joséphine Bacon. Quando questo progetto di traduzione ha preso avvio, insieme all’editore, Andrea Cati, abbiamo fortemente desiderato tradurre l’intera sua opera poetica.
Io penso che la poesia sia una forma di ascolto, di sé e dell’altro, ed essa nasce da una particolare disposizione a ricevere, ad ascoltare le parole che la lingua offre. Leggere le poesie di Joséphine Bacon significa accettare di lasciarsi attraversare da una voce che viene da Nutshimit – il territorio ancestrale innu, la tundra quebecchese – e che porta con sé l’ampiezza delle memorie ancestrali e insieme la lucidità della perdita. Leggere Joséphine Bacon significa dunque mettersi in ascolto di una poesia che ripara ed è riparazione. Ogni parola è traccia del passaggio dell’altro – umano o animale – e in essa risuona una forma di cognizione, nel senso di conoscenza incarnata. La si legge per ascoltarla, per udire una lingua che cammina al ritmo del vivente, che ridona respiro alla voce del popolo autoctono innu.
Quali parole la trovano se le chiedo di tratteggiare Joséphine Bacon secondo l’idea che, in un lungo tempo di ascolto, le hanno “restituito” i suoi versi, meglio il suo “fare” poesia?
Non è facile rispondere alla domanda, tuttavia credo che la chiave stia proprio in quello che lei chiama “tempo lungo di ascolto”. Quando ho scoperto i versi di Joséphine Bacon, nel 2018, fu come una rivelazione. La conobbi a Parigi, quando era ospite d’onore al Marché de la Poésie di Saint-Sulpice, che quell’anno invitava il Québec. Conobbi i suoi versi tramite la sua voce, prima ancora che sulla pagina. A ritroso mi dico che non poteva essere altrimenti e che forse proprio per questa ragione ne sono stata folgorata.
Per gli Innu, che sono un popolo autoctono del Québec e del Labrador, la poesia nasce intrecciata alla tradizione orale. Prima ancora di essere fissata sulla pagina, la parola poetica è stata parola pronunciata. In realtà presso gli Innu la trasmissione culturale, spirituale e linguistica si è basata sull’oralità, e la poesia scritta è arrivata nel XX secolo, con poeti come Joséphine Bacon. Non c’è stata rottura con la tradizione orale, ma ne hanno cambiato le forme. Quindi il tempo lungo dell’ascolto è passato proprio dall’accogliere dal vivo la voce poetica di Joséphine Bacon, il soffio sonoro emanato dal suo corpo, e poi questo ascolto è diventato anche quello delle sue pagine.
La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?
Definire la poesia “la lingua dell’invalicabile” significa riconoscerne la capacità di dare voce all’ineffabile, di avvicinare ciò che non può essere valicato pur mantenendone intatta la distanza.
Nella poetica di Joséphine Bacon l’invalicabile non è solo il limite dell’indicibile, ma anche quello imposto dalla colonizzazione, dall’esclusione delle voci marginalizzate. Ciò che è invalicabile infatti non riguarda soltanto il limite dell’indicibile ma anche ciò che è stato storicamente silenziato: le memorie collettive, le epistemologie autoctone, le culture e le lingue stesse dei popoli autoctoni. Natasha Kanapé Fontaine, poeta e attivista innu, in un testo del 2020 spiega il ruolo delle donne innu nella lotta contro la colonizzazione e la responsabilità che ammanta la parola, anche quella poetica. Indica come la scrittura poetica sia una pratica capace di articolare ciò che resiste al linguaggio dominante. La poesia può essere un atto di resistenza e di rigenerazione: essa custodisce ciò che è stato negato, rivela la perdita, e al tempo stesso apre spazi di relazione. Lingua dell’invalicabile nella poesia di Joséphine Bacon è lingua che non cerca di annullare il trauma coloniale e le sue ferite, ma piuttosto di abitarle, rendendo udibile ciò che non trova posto nel discorso egemonico.
“Nelle mie notti da sogno,/ ti vedo raggiungere/ l’orizzonte senza me.”, la poesia può colmare la pensosa solitudine del poeta?
In questi versi la voce poetica di Joséphine Bacon si rivolge a un’amica perduta, Rolande, a cui la poesia è dedicata. “La nostra amicizia divenuta assenza/ l’ho fatta mia amica”, scrive Bacon nei versi che precedono, a significare che anche la perdita può esserci amica o diventarlo. L’intera poesia, tratta dalla prima fra le raccolte di Bacon, “Bastoni messaggio”, è molto evocativa, nel senso che tramite i versi che dicono l’assenza la poeta evoca una dimensione abitata da presenze invisibili, che fanno capolino “deridendo la morte”.
Pensando alla sua attività di traduttrice domando: la poesia è realmente traducibile? E se lo, è più corretto parlare di traduzione o di reinvenzione, di riscrittura?
Tradurre l’opera di Joséphine Bacon è stato un viaggio meraviglioso. Non è retorica. Tradurre è una pratica sorprendente, e lo dico rimarcando il carattere di sorpresa che si prova ogni volta, anche quando si realizza quanta fatica essa comporti. Nel senso che non ammette di sbrigarsela in poco tempo, richiede tempi lunghi, di riflessione, di eterno ritorno ad un verso, al suono di una parola, a una rima che non riesce, o al giro di una frase quando proprio non torna. Io sono convinta che ogni traduzione è, per sua natura, un’approssimazione. Ma questa approssimazione non è un limite: è la condizione stessa che rende possibile l’incontro. Nessuna lingua coincide, anche perché ogni parola porta con sé stratificazioni che non si lasciano trasferire intatte. Anche la musica di una lingua va ricreata e questa è forse la cosa più difficile. Chi traduce si muove in questo spazio di distanza, attuando compromessi che non sono mai solo tecnici. È proprio in questa zona transito che il testo vive in un’altra lingua, senza cancellare le tracce di quella di partenza. Io credo poi che la traduzione non debba fingere neutralità, ma dichiarare la propria interpretazione; a volte si può, con i paratesti. Nell’antologia poetica di Bacon vi ho posto attenzione. Se accordiamo valore all’ascolto, come dicevo prima, un lavoro avvisato, e lento, non deve appianare le differenze, non addomesticare l’alterità, ma accompagnare il testo nel suo passaggio tra mondi.
E, ancora, la poesia (dal suo punto di vista) è più ispirazione o più costruzione? Qual è stato, ad oggi, un “insegnamento” ricevuto in dono dalla poesia o, se preferisce, “semplicemente” da un verso?
L’alternativa binaria non mi soddisfa, non solo quando si parla di poesia peraltro. La poesia non nasce nel vuoto, è gesto che prende corpo nel tempo, nel tempo lungo di cui parlavo, nell’ascolto. Per Joséphine Bacon nasce nel dialogo con altre voci, non solo umane, con quelle del vivente che è e che fu. Si costruisce e si incarna e non perde contatto con la vita e con le relazioni che la rendono possibile.
Sceglierebbe (riportandola), e per salutare i nostri lettori, una poesia della Bacon che ha cambiato (più di altre, e ammesso sia accaduto) il suo essere nel mondo (e, magari, spiegandoci il perché di questa scelta/preferenza)?
Preferisco solo scegliere, che per me è già assai arduo, una poesia dell’antologia e lasciare spazio ermeneutico, l’apertura del senso, alle vostre lettrici e ai vostri lettori.
L’eco canticchia un incantesimo
Papakassiku lo sente
E manda suo figlio Caribù
A nutrire il mio corpo stanco
A calzare i miei piedi consumati
Stendo sulla neve la sua pelle di pelliccia
Per addormentarmi
I miei sogni raggiungono le stelle
Tundra mi sussurra
Eccoti qui
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Francesca Maffioli è nata a Lovere (Bergamo) e vive tra Milano e Parigi. Nel 2017 ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi di genere presso l’Università di Parigi VIII e in Storia della lingua e della letteratura italiana presso l’Università degli Studi di Milano, con una tesi su Amelia Rosselli. Nel 2018 ha ottenuto la qualifica di Maître de conférences in Langue et littérature italienne, rinnovata nel 2023.
È membro del LEGS (Laboratoire d’Études de genre et de sexualité – CNRS, Paris 8, Paris-Nanterre) e fa parte dell’attuale direttivo della Società Italiana delle Letterate (SIL). I suoi interessi di ricerca includono le poetiche e la scrittura delle donne tra il XX e il XXI secolo, le teorie della traduzione letteraria e l’ecopoetica, ambiti che si collocano all’incrocio tra l’espressione del sensibile e il desiderio di reimmaginare, attraverso la parola letteraria, relazioni di condivisione con la dimensione poetica del vivente. Dal 2016 scrive per “il manifesto”. Collabora inoltre con la rivista culturale “Limina” e con la rivista ecofemminista “Erbacce”. Tra le pubblicazioni più recenti figurano, nel 2025, Innue, cura dell’opera poetica di Joséphine Bacon in italiano, per Interno Poesia, e la traduzione con postfazione a Il riso della Medusa di Hélène Cixous, per Feltrinelli.
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(la versione ridotta di questa recensione-intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 2 novembre 2025, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).







