Suggestioni prosastiche animano un fittissimo reticolo di ricordi, «senza nostalgia». Lucidissime, le memorie intime intrecciano le memorie collettive fotografando accadimenti implacabili, epocali, «Il ragazzino preferiva il lettore di e-book / per il viaggio, questione di comodità, / un’accensione da seicento tomi, / la memoria perdeva radiazione / ed energia». Rievocazioni (anche) olfattive, sovviene Proust. Conduttori sensoriali, gli odori, sconfinamenti nel mistero trasfigurante della poesia. Come scrive Fabio Pusterla, direttore della collana di poesia “Le ali”, edita da “Marcos y Marcos”, «lo spazio e il tempo della raccolta hanno nomi e confini: l’Italia, tra Messina e Treviglio, il secondo Novecento e le sue crudeltà sottaciute; e tuttavia queste coordinate sfumano a tratti in altri tempi e in altri spazi più immani». Parliamo di “Transito all’ombra” di Gianluca D’Andrea, uno dei fondatori della rivista Carteggi Letterari (in rete da febbraio 2014), per il quale si occupa di critica, nonché responsabile della collana di poesia della Casa Editrice omonima (Carteggi Letterari – Le Edizioni). Ha pubblicato: Il Laboratorio (Lietocolle, 2004); Distanze (2007); Chiusure (Manni, 2008); Canzoniere I (L’arcolaio, 2008); Evosistemi (Edizioni L’Arca Felice, 2010); [Ecosistemi] (L’arcolaio, 2013); Transito all’ombra (Marcos y Marcos, 2016).
Qual è il ricordo legato alla tua prima poesia?
«Non saprei, perché principalmente dovrei ricordare quale sia stata la prima poesia e iniziare da cosa fosse per me la poesia allora. In realtà il punto è quello che Zanzotto in un’intervista definisce «prospettiva rastrellante che porta in un punto di fuga; qualcosa che spiazza il senso dell’ovvio, del banale e di tutto ciò che è comune», ecco io non ricordo nel mio passato nessuna “prospettiva rastrellante che spiazza il senso dell’ovvio”, ma ricordo le mie riflessioni sull’essere “comune” o “banale”, nel senso che a questo termine ha affidato Jean-Luc Nancy in La città lontana, e che hanno fatto scaturire, tra gli altri, questi versi: «vivevano i rapporti / e tutti carezzavano le ossa / i nervi rigenerati. / Occhi d’ardesia sui quali incidevano / i ricordi».
Quali i poeti (e, più in generale, gli autori) significativi per la tua formazione?
«Su questa domanda non ho molti dubbi. In poesia, come forse per molti della mia generazione, per me fu rivelatorio leggere a vent’anni l’antologia completa delle poesie di Valerio Magrelli edita da Einaudi nel 1996, soprattutto Ora serrata retinae. Da allora in poi i legami che si sono più “consolidati” sono stati con Wallace Stevens (conosciuto durante il lavoro preparatorio alla mia tesi di laurea su Magrelli) e Andrea Zanzotto. Un’assiduità che può essere paragonata solo a quella con Dante. Altri importanti riferimenti sono alcuni filosofi, principalmente Jean-Luc Nancy. Tra i poeti in lingua italiana contemporanei apprezzo molto Fabio Pusterla e Franco Buffoni.
Qual è – nell’arco della giornata – il momento ideale per dedicarsi alla poesia (alla scrittura)?
«Ecco, più che alla poesia, che può arrivare in qualunque momento, forse il periodo della giornata che mi permette una maggiore concentrazione è la sera prima di addormentarmi e dopo aver letto qualcosa a mia figlia per aiutarla a sua volta ad addormentarsi. In questa dimensione di rilascio della tensione riesco a produrre un po’ di scrittura sulla poesia e qualche riflessione sul tempo in cui ci troviamo a vivere.
Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?
Su “L’Estroverso” del 6 novembre 2016 parlavo della poesia come del «concretarsi di un’ombra attraverso un’immagine», probabilmente facevo riferimento al segno e al senso che sembra poter derivare dalla sua traccia. O meglio dal tracciato che sembra definirsi da tutta l’arbitrarietà che nel segno è implicita. Forse per ovviare a quest’arbitrarietà la poesia cerca un contatto con il reale, desidera rendersi partecipe della sua trasformazione, e qui ritorna Zanzotto, “spiazzandone il senso dell’ovvio”. Certo, per far questo il segno non può bastare a se stesso e la ri-scrittura del reale non può non abbracciare anche la dimensione di una storia collettiva che il secolo appena passato aveva fatto in modo di cancellare dalla prospettiva dell’individuo. In ogni caso, per “concretare” il segno in direzione “collettiva”, “comunitaria”, per ricondurlo al suo “fuori dal comune”, occorre riconsiderarlo dentro la cornice che lo rende possibile: «Ma come io possiedo la storia, / essa mi possiede; ne sono illuminato: // ma a che serve la luce?», ecco, forse in questa domanda “assoluta” di Pasolini si gioca il senso della poesia “attuale”.
Quando una poesia può dirsi compiuta?
«Vi sono stati mai degli Eroi?», questa domanda di Foscolo potrebbe fare da pendant alla domanda sulla compiutezza della poesia. Una poesia non può essere compiuta quasi per definizione, perché la sua parola è una ri-creazione continua di senso. Il suo essere “comunemente” incompiuta è il suo modo di esistere nel reale, per ritornare alla riflessione precedente. Non risponderebbe alla sua necessità di riattivazione continua di senso se si adagiasse sulla sua “conclusione”. In questo caso veramente emerge la dimensione relazionale della parola poetica, la sua esigenza di lettura, la sua necessità di un lettore.
La poesia può (e se può in che modo) restituire purezza alla parola? Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?
Non so quale possa essere l’incarico della poesia. Forse una delle sue verità potrebbe essere quella di non dover essere “pura”. È quasi un controsenso pensare a una parola cui si debba restituire un certo nitore, una pulizia che non ha mai posseduto perché in continua trasformazione nella “sporcizia” del tempo e del reale. Chiudendo il cerchio, la parola della poesia ha il dovere di continuare a tracciare un percorso di resistenza all’uniforme e di trasporto al difforme, sempre per lo stesso motivo della pluriattivazione del senso già emersa nelle risposte precedenti.
Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo nel quale all’occorrenza trovi rifugio/conforto?
«The dreadful sundry of this world», un solo verso da O Florida, Venereal Soil di Wallace Stevens, non per conforto però, ma perché mi ricorda la potenzialità del mondo di potersi trasformare in una spaventosa accozzaglia, come forse è stato e continua a essere. In genere mi immergo molto volentieri nella miniera di Stevens, spuntano sempre gemme misteriose.
E, ancora, se “Il cielo si perde dopo lo sguardo”, la poesia può colmare il divario tra l’uomo e l’ignoto?
Non penso che la poesia abbia il compito di colmare dei vuoti, non ha nessuna funzione consolatoria. Se ha anche il valore di un percorso di conoscenza, allora qualche velo l’ha già tirato giù.
Per concludere, ti invito a scegliere (riportandola) una tua poesia (da “Transito all’ombra”) per salutare i nostri lettori.
Mi piace riportare il Dittico che parla dell’identità del poeta e della sua trasfigurazione:
Trasposizione (o l’identità del poeta)
Il fatto di essere non sussiste
esiste l’essere come un fatto
del sentire. Allora io sarà il nucleo
per cui posso essere me stesso,
non il triciclo abbandonato in strada
accanto ai bidoni ustionati.
Mia figlia pedala.
Io è le mutande del ragazzo
al semaforo che vende accendini.
Dopo un giorno di lavoro
brucio i fazzoletti abusivi
e raccolgo parole da uno schermo,
ustionato da tutti i contatti.
*
L’identità (o trasposizione del poeta)
Sentiva di spostarsi e accadimenti
intercedevano per lui che si spostava,
sospinto dalla piena presenza
di se stesso. Impercettibilmente
ad agire era un moto secondario,
che diventava consistente e si perdeva.
Camminava pienamente.
Si alternava in tutto il movimento
la sensazione vera di non essere
se non se stesso in contatto perenne,
come accade nelle passerelle
agli aeroporti dopo un giorno
in piedi a calpestare i propri passi.
*
*
(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 05.02.2017, pag. 13, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”, Cultura).