«L’Inferno è facile, è in technicolor». Un passo scelto dal libro “Io che vi parlo” di Primo Levi, edizioni Einaudi. Inedita conversazione con Giovanni Tesio, ordinario di Letteratura italiana all’Università del Piemonte Orientale, iniziata nel pomeriggio del 12 gennaio 1987, pochi mesi prima della scomparsa dello scrittore torinese. Tratto distintivo del libro, testimonianza nella testimonianza, il capitolo introduttivo “Ho conosciuto Primo Levi” con il quale, Tesio, complice la fraternità della propria scrittura con la scrittura di Levi, ci chiama alla lettura con mirabile “precisione espressiva”.
Può raccontarci/anticiparci (per quanti non hanno ancora letto il suo libro), come ha conosciuto Primo Levi? E quindi aprire una piccola parentesi su quanti (quali tra i più significativi) incontri (“conoscenze”) ha favorito la sua passione per la lettura?
«Semplice. Avevo letto Se questo è un uomo nell’edizione Einaudi del ‘58, ma poi in un’antologia in cui mi ero casualmente imbattuto anche una pagina che a memoria mi parve non corrispondesse alla lettura che del libro avevo fatto io. Scoprii così che c’era stata una prima edizione (allora non lo sapevo) presso la casa De Silva che dirigeva Franco Antonicelli. Collazionai le due edizioni e trovai differenze notevoli e addirittura un capitolo aggiunto. Allora mi feci coraggio, presi in mano la guida telefonica di Torino, trovai il nome di Primo Levi regolarmente registrato e telefonai. Mi rispose lui stesso, gli spiegai le mie intenzioni e lui, gentilissimo, mi invitò a casa sua e mi mise a disposizione il quaderno su cui aveva registrato modifiche e aggiunte “Per Einaudi”. Un quaderno di scuola dalla copertina verde oliva, simile a quello su cui scriverà quasi tutti i capitoli del secondo libro, La tregua, e che io possiedo perché mi fu da lui donato Da quel momento in poi passammo dal lei al tu, poco alla volta, naturalmente. Dire se ci siano stati incontri particolari non saprei perché non vorrei forzare la significatività di momenti molto domestici, molto colloquiali. Insomma, non vorrei esagerare in interpretazioni troppo ex post, come si dice».
Oltre a “riconoscere nel linguaggio scritto la stessa grana della sua voce parlante, antiretorica ma non inerte, domestica ma quasi festiva, monotonale ma dotata di un suo scatto espressivo”, cosa ha significato per lei aver conosciuto Levi?
«Molto, s’intende. E soprattutto una lezione di linguaggio. Ammiravo in lui la precisione con cui sapeva esprimersi, senza pentimenti, senza zeppe. Confesso che su questo piano (ne tralascio altri magari anche più importanti) la lezione di Levi è stata per me decisiva».
Leggendo la vostra conversazione, talvolta, si ha la percezione di stare ascoltando qualcuno che risponde con il fiato sospeso, quasi come fosse in equilibrio sull’esile filo della parola. È una sensazione corretta?
«Certo che lo è. Levi si vigilava costantemente, non si avventurava, si abbandonava di rado, anche se capitava che lo facesse. Nella nostra conversazione questo filo di esitazione più o meno lieve, che testimonia del controllo esercitato sulle risposte alle mie domande, c’è, eccome se c’è. A volte affiora evidente, altre volte più sotto traccia, ma c’è, certo che c’è».
Il vostro progetto, ovvero quello di scrivere, come la chiamavate, una “Biografia autorizzata”, per le ragioni che conosciamo, non è stato compiuto. Fin qui la stesura è fedele al modo di esprimersi di Levi? Qual è stato (o più correttamente, quale sarebbe stato) il “passo” più difficile da “tradurre” (interpretare)?
«E come prevederlo? Di certo un conto è riportare con ogni possibile esattezza una dichiarazione, un altro scrivere una biografia autorizzata che Levi avrebbe potuto e dovuto controllare sia nell’opportunità delle notizie sia nella scrittura. Non faccio ipotesi, ma sono sicuro che non sarebbe stato un lavoro facile. Credo che avrei dovuto rinunciare a passaggi che invece mi sarebbe parso necessario inserire. Ne avremmo discusso, ma alla fine a prevalere, anche per il rispetto che avevo di lui, sarebbe stato lui».
In Se questo è un uomo Levi scrive: “Noi sostammo numerosi davanti alla loro porta, e ci discese nell’anima, nuovo per noi, il dolore antico del popolo che non ha terra, il dolore senza speranza dell’esodo ogni secolo rinnovato”. Un chiaro esempio di preterizione. Il modello (come leggiamo anche nell’edizione Einaudi, commentata da Alberto Cavaglion) è quello della terza cantica di Dante (Par. XXXIII, 57). E con Dante chiediamo: «Cede la memoria a tanto oltraggio»?
«La memoria rinnova l’oltraggio, ma lo consegna alla sua necessità. Ad un tempo distanzia e avvicina, appartiene a un’altra dimensione, che è un po’ simile a quella del sogno. Un avvenimento oltraggioso che la memoria riconsegna alle vittime di un meccanismo micidiale costringendole a darcene conto, a farci partecipi, ma in una dimensione che non è più quella: quasi un dramma nel dramma. La memoria, oltre che difettiva, non è sempre consolatoria».
Qual è stato l’insegnamento di questo, come lo definisce, “maestro di laicismo e ragione, di dubbio e interrogazione, ma anche di chiarezza e resistenza, di risolutezza e azione”?
«Mi pare di averlo già detto, sia pure in modi sintetici. La lezione di Primo Levi, che ne fa ormai l’autore di un quantunque precario canone novecentesco, non è solo quello della testimonianza, ma quello della scrittura. L’ho detto più volte parlando di Levi come di “scrittore di scrittura”. La testimonianza (fermo restando che magari tutto viene da lì, ma lì non si ferma) è tanto più efficace quanto più è consapevole della sua letterarietà».
Levi pubblicò le poesie di Ad ora incerta, con Garzanti, su suo amicale suggerimento. Come ha osservato Giovanni Raboni, «l’impulso iniziale di ogni singola poesia nasce dalla ragione, dalla lettura morale della realtà, da quella capacità di capire la propria sofferenza e la propria indignazione come patrimonio comune a tutti gli uomini». Crediamo che, come in questo caso, quando il dire diventa dare si è in presenza di poesia. Cosa le ha “dato” la poesia (la scrittura) di Levi?
«Ho sempre difeso la poesia di Primo Levi dai giudizi limitativi che qualcuno ne ha fatto (anche nel primo convegno cui fui invitato a Princeton nell’anno stesso della morte). Poesia concreta, linguaggio ibrido, perfettamente intonato alle risorse di un dire alieno da sentimentalismi, lirismi dolcificati e altra mala compagnia. Nessun sanctus sanctus sanctus, ma una necessità diversa di dire, di cui Primo Levi non sapeva darsi ragione, ma di cui (auto)denunciava l’irrazionalità. A me la poesia di Primo Levi ha dato la coscienza della sua alterità, dell’essere cosa difficile da comporre in ordinato scaffale. Poesia che deroga, poesia che spiazza, poesia che non rinnegherò mai».
Questa conversazione ci dona alcuni aspetti inediti della vita familiare e scolastica di Levi. A pag. 36 del suo libro leggiamo “… ho fatto componimenti buoni finché si è trattato di componimenti di invenzione, cioè creativi, e ho fatto pessimi componimenti quando si doveva trattare di critica, cioè commentare le poesie. La poesia non m’interessava. Mi sono state appiccicate in mente, come avviene, Carducci, Pascoli. Sono rimaste appiccicate in mente, ma non mi piacevano.” Con questa premessa per chiederle: qual è la sua (ideale) didattica della poesia? In che modo un insegnante dovrebbe muoversi per permettere ai propri studenti il recupero di quei valori umanistici (sempre più secondari) mediati dalla letteratura, dalla poesia?
«Non conosco ricette, sono fieramente avverso a didatticismi efferati, mi ripugnano le scienze esatte dell’inesatto (o del diversamente esatto) per eccellenza. Credo che – senza nulla sottrarre alla competenza, che ci vuole in tutti i campi della conoscenza quali che siano – occorra molta passione e molta dedizione. La letteratura è sul punto di cedere sotto lo schianto della presunzione e dell’arroganza di scienze più presunte che vere. La poesia ancora – ovviamente – di più. Ma proprio Levi ci insegna – lui così “tecnico”, lui così ferrato non solo nel conoscere ma anche nel saper fare, e non soltanto della chimica – ci insegna, dicevo, che la poesia sfugge alle determinazioni e alle gabbie interpretative: è materia infiammabile e mercuriale. Guai a pretendere di chiuderla nei recinti delle facili (e tanto peggio se uniche) interpretabilità».
Levi ribadiva che “Raccontare è una medicina sicura”. Oggigiorno raccontare può aiutarci a recuperare la capacità d’ascolto dell’altro (e di noi stessi)?
«Non posso che condividere. Raccontare non è soltanto una medicina (fino ad un certo punto) sicura, ma è il maggior legame che noi abbiamo con l’idea antropologica di comunità. Noi, raccontando, diamo ordine a ciò che non ne ha, ci costringiamo a trovare un bandolo, ci mettiamo a prova, diamo un senso al nostro esistere. In questo senso la medicina più che sicura ci è – ancora una volta – necessaria».
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Seguono, dopo la copertina del libro, le foto di Angelica Ausilia Giadone, scattate alla libreria Mondadori di Piazza Roma, a Catania, lo scorso 14.10.2016, in occasione dell’incontro per la presentazione del libro curato da Giovanni Tesio “Io che vi parlo” di Primo Levi (Einaudi, 2016). Interventi di Renato Pennisi, Novella Primo e Grazia Calanna che ha realizzato l’intervista.