Giuseppe Nibali e il suo attualissimo “Scurau” nato dalla “volontà di uscire dal canone”.

«U generi umanu. Ju n’haiu scantu./ Nuatri semu pronti ppa tunnara».Versi scelti per introdurvi alla lettura di “Scurau”, recente libro di Giuseppe Nibali, edito da Arcipelago itaca, accompagnato da una minuziosa postfazione di Tommaso Di Dio che evidenzia come, implicitamente, il poeta catanese “mostra il fondo più oscuro della nostra epoca”. Testimone lucido e “spietato” con un dire fotografico propulso da un quesito che sconquassa occhi e coscienza, («Scurau, u senti stu scuru ca ni pigghia?»), Nibali ci trascina alla radice di un buio intraducibile, un buio assoluto («a stissa miseria, ustissu chiantu») che (ecco lo spiraglio) finché ci daremo la possibilità di farci invadere, non sarà troppo “tardi”, «verrà tempo per la coscienza».

“Noi ci stiamo ritirando verso i boschi, non vogliamo prendere parte all’abomino”, in che modo la (tua) vita diventa linguaggio?

Il verso a cui ti riferisci riprende, più che un’idea sulla vita singola dell’io, sul suo portato, sul suo coefficiente specifico, un discorso articolato sulla società per come è intesa. Nel testo, soprattutto in quel determinato frangente, si assiste a un arrocco, al tentativo da parte dei reduci del contemporaneo di arretrare fino al bosco, luogo che, fuori dai termini acronici della fiaba, diventa “luogo del futuro”. In questa ottica si deve leggere la terza e ultima sezione di Scurau, quella in lingua siciliana, che è siciliana, appunto, per accidente, perché lingua madre dello scrivente, ma che diventa lingua popolare, volgare, agita dalla massa. Di questo linguaggio mi sembra si debba parlare, conoscerlo, poi, attraverso i crismi della linguistica scolastica, si rende tutto più roccioso, più metallico, è più facile incagliarsi, ma è un rischio che si accetta non appena si comincia a papariare nell’inchiostro.

Qual è stata la scintilla che ha acceso il tuo “Scurau”?

Scurau nasce dalla volontà di uscire dal canone, di spostarsi su un lato, se non desertico, sicuramente poco battuto. Oggi in pochissimi si preoccupano di traferire concetti filosofici e sociologici in poesia e ancora meno sono quelli che per questo rinunciano a stilemi poetici prestabiliti e, direi, presentabili. Se prendiamo il mio primo testo, Come dio su tre croci (Arcipelago Itaca, 2013) questo traeva la sua forza, nella maggior parte dei casi, da testi poetici, ed era dal “poetico” latu sensu che traeva la sua forza. Credo poi che oltre a Gramsci e Byung Chul-Han (ma avrei potuto dire Agamben, Calasso, Sini, Harari, Deleuze, Bauman e Morton, solo per tenerci a fonti dirette del mio ultimo libro), oltre ai riferimenti, conti molto la biografia dell’autore. Si scrive, per dirla così, sempre lo stesso verso, lo stesso racconto, la stessa opera, filtrata di volta in volta tramite poetiche differenti. Alla propria biografia, alla propria storia, non è possibile fuggire. Nel mio caso, dunque, la Sicilia, che è la terra dei padri non smette di essere un’ispirazione costante. Ancora di più: si è dei vissuti, non dei viventi. Allo stesso modo funziona il linguaggio, noi siamo parlati più che parlanti. Diciamo, per risponderti, che la mia poesia cerca di mettere a tema il mondo contemporaneo, la sua storia, i suoi vizi di forma, le sue strutture. Ma credo che, in un certo modo, la poesia di ogni tempo (quando non è puro esercizio di stile) abbia cercato di mettere in versi il proprio contemporaneo, basti pensare alla poesia europea di guerra, o a quella borghese subito successiva.

La forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica?

La forma regola e completa il significato, naturalmente. In poesia la prima è, storicamente, molto meglio analizzata del secondo. C’è poi il problema di quella che Hirsch chiama “significanza” che può essere allungata e ristretta e che spesso vediamo nelle note critiche, anche quelle redatte dal sottoscritto, dove a una teoresi sempre negata dallo scrittore di poesia si somma, con risultati spesso parodistici, quello dello scrittore di critica che ne analizza i testi.
Naturalmente è un affare molto complesso, che coinvolge la dialettica attuale tra poeti lirici e poeti performativi e “orali”, o tra neometrici e neoermetici. Ma forse la lezione più grande che ci ha impartito il Novecento è proprio questa: esiste una progressione nella poesia contemporanea che non può essere ignorata e che passa da uno sviluppo personale delle forme.

Immagina di dover dare delle “istruzioni” essenziali per scrivere una poesia, quali daresti?

Mi capita, in realtà, molto spesso. Una volta, quando lavoravo al Centro di Poesia dell’Università di Bologna, capitava con ancora maggiore frequenza. Ci si sedeva attorno a un tavolo e davanti a una birra si scriveva, si leggeva insieme. Una forma laboratoriale che ho in parte rinnegato per motivi che sarebbe noioso spiegare integralmente qui. Credo che la poesia non sia un fenomeno sociale e che la faccia coperta del laboratorio di poesia sia il sottinteso che siano importanti e degni i versi di chiunque. Comunque. Mi capita invece di fare scrivere dei versi ai miei studenti ed è una cosa molto simile a un corso di cucina o di scultura. Si danno loro dei rudimenti, degli strumenti, si fanno vibrare nell’aula le parole dei maestri e si gioca a vedere cosa succede. Così, continuando sul solco della metafora, capita ogni tanto di vedere un braccio, un muscolo, un occhio, qualcosa. Credo che il trucco sia procedere e tenersi ricettivi, leggere, ricercare ciò che di interessante esiste, senza forzare, senza istruire, ecco.

Cosa può la poesia perché la “la meccanica nei cuori” (tutti) smetta di tacere?

Niente. Purtroppo. Nel testo che tu citi mi riferisco a uno stormo di merli barbaramente ucciso da una recinzione elettrificata. Un incidente, qualcosa di più. Animali uccisi dallo sviluppo umano. Ancora: uomini uccisi dallo sviluppo umano, a metà tra l’errore di sistema e il rischio calcolato. Homo sapiens è una bestia strana, capace di cambiare radicalmente l’intera biosfera a suo piacimento, senza poi saperne controllare i devastanti effetti collaterali, ciò che ne risulta è appunto quel famoso Antropocene che io cerco di problematizzare nel mio libro.
La poesia non è mai stata un’arma, nemmeno durante l’indipendenza greca, il risorgimento, la guerra civile spagnola. Nemmeno dunque nei momenti in cui i suoi autori hanno plasticamente imbracciato il moschetto. Ha una radice inerme, mi sembra.

Qual è stato, ad oggi, il dono più prezioso ricevuto in dono dalla poesia?

Gli incontri. Assolutamente. Sono dieci anni che mi muovo in questo ambiente. Dagli incontri sono derivate le letture, le scoperte. Ho affinato il mio gusto in tutti i campi culturali e filosofici, ho incontrato persone fantastiche e compagni di strada e questo mi capita ancora. Poi c’è una parte meno positiva e più segreta, secreta, davvero, che concerne il mio personale rapporto con la letteratura, che è un rapporto di dolore e necessità, figlio di una biografia abbastanza pesante che cerco, nonostante le mie precedenti parole, di nascondere il più possibile nei miei versi. Ha qualcosa a che fare con la vita, questo gesto qui di scrivere.

Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una tua poesia dal libro “Scurau” – ed. Arcipelago itaca – e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

Il testo che qui riporto è uno dei più difficili del mio libro. Allo stesso modo trovo che sia uno dei più dolci. Descrive uno scenario che ricorda i Racconti impossibili di Landolfi, qui una coppia che guarda la televisione dal divano viene coinvolta da un inverosimile crollo del globo giù dall’atmosfera. I loro resti mummificati vengono poi esposti per essere guardati dalle creature future con lo stesso atteggiamento e con la stessa distanza con cui noi guardiamo “gli amanti” di Pompei. Questa poesia è anche una delle ultime tra quelle che compongono il libro: 2020, in pieno lockdown.

fanno spavento le cose del mondo e si dovrebbero lasciare:
un figlio chiede al padre dell’auto crollata nel vallone.
Si dovrebbero lasciare, mentre insieme guardano la televisione
dal divano. Lei lunga distesa, il suo collo e ciò che precipita
insieme a noi e alla Terra e si fa freddo mistero.

In futuro poi il lampadario di carni e scheletro, faranno
come fossero statue di rettile nel diorama. Diranno si amavano,
guarda, lei ancora tiene la testa poggiata sulla spalla.
Non hanno sentito nulla dal globo durante il lungo crollo
(mesi, anni), è stato come spegnere tutto, un velo, un tuono.
Entrarci ancora vivi, dentro il nero

 

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 17.10.2021, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

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