“I perduti amori” di Giorgio Ghiotti. “Le parole bastano alla poesia, perché il corpo della poesia è la lingua.”

Dentro un tempo «misurato sempre in unità/ minori: primule, violette, amori», un libro denso di nostalgia («Nessuno più spedisce cartoline/ ed è un peccato – quel modo di/ recapitare il mondo, nell’angolo/ schiacciato dai saluti il nome/ di zie, nonni, cugine – la gara per/ aggiungere una stella – mai/ ci finiva il male in quelle righe,/ il mondo era un posto sublime -) per quello che è stato (che eravamo), come di fiducia per quello potrebbe essere (che potremmo diventare) avendone coraggio («la vita sempre riprincipia»). Parliamo del vigoroso libro “I perduti amori” di Giorgio Ghiotti (nella foto di Ilaria Rossetti), prefato da Maurizio Gregorini, pubblicato dalle edizioni “Il Simbolo”. Ghiotti, «tra le risorte stanze del ricordo», ripercorre costellazioni di stagioni dentro innumerevoli luoghi dell’anima (battiti di cuore, città, letture, silenzi), i cui frutti, sebbene le mancate promesse, sebbene la «strettoia furibonda» del vivere, sebbene la provvisorietà della felicità, perdurano nell’arte dell’ascolto come in una devota consapevolezza: «è il presente la mia età dell’oro».

Pariamo dal titolo: qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “I perduti amori”, meglio: in che modo la (tua) vita diventa linguaggio?

Per chi scrive, per chi ha la vocazione del verso (ma credo valga anche per la prosa), la poesia è la vita precipitata sulla pagina, e il precipitato è il racconto che se ne fa, e che, inevitabilmente, passa attraverso il linguaggio. Scrivo in una nota a fine libro che I perduti amori è il “libro dei miei trent’anni”. Volevo che fosse un filo al quale appendere istantanee di momenti ad alta temperatura emotiva: gli anni a Milano, il tempo passato con due amiche-maestre come Biancamaria Frabotta e Anna Cascella, e poi ancora momenti minimi sepolti sul fondo del catino d’infanzia che, a saperli guardare, rivelano tanto del bene e del male che ci portiamo dietro. Naturalmente, gli amori. Nulla di tutto questo è perduto davvero, finché sapremo evocarlo – evocare la vita – attraverso le parole; che sono uno strumento potentissimo ma non onnipotente. Dico questo perché credere che il linguaggio, le parole, abbiano da sole la capacità di definire e creare il mondo in cui vorremmo vivere, è progressismo magico. Un’illusione.

Ad oggi, dove sei stato condotto dalla poesia, qual è stato l’insegnamento, la poesia è un destino?

Sono stato condotto in territori pieni di meraviglia. E la poesia – lo diceva anche Biancamaria Frabotta – in questi itinerari non ha mai assunto il volto di una guida, ma quello di una compagna. Lei pure, passo dopo passo, intenta a scoprire e a scoprirsi. Del resto, il poeta (e dunque anche la poesia, stretti a doppio filo) è l’ignaro, quando scrive, perché nessun poeta potrebbe mai dire, esaurito un verso, come sarà il successivo. Il prosatore ha in linea generale un’idea di quel che andrà scrivendo al paragrafo seguente; il poeta no. Se la poesia è un destino? Non credo. O non mi piace questa definizione. Un dono, magari, una consolazione, la forma più alta del pensiero, dunque ha anche risvolti pratici. Ma la parola destino ha molto più a che fare con le dittature che con le democrazie. E la poesia è il contrario del regime. Forse per questo ne diffido.

“Così fiabescamente riappare/ il nodo della dimenticanza/ tra gli applausi dell’ultimo carnevale/ in abito di scena che s’indossa/ sulla tua schiena adorata dove posa/ randagia una pena”, con i tuoi versi per chiedere: le parole bastano alla poesia?

Le parole bastano alla poesia, perché il corpo della poesia è la lingua. Se non bastano, se c’è bisogno (come spesso accade in questi ultimi tempi) di un contesto, del “poeta personaggio”, di una narrazione extratestuale attorno alla poesia perché acquisti un senso e perché sia legittimata, vuol dire che non ci si trova di fronte a vera poesia, ma a un marketing poetico. Che orrore. Scriveva Celan che solo mani vere scrivono poesie vere. E quelle – le une e le altre – io credo si riconoscano subito, se si è letta una buona quantità di poesie vere. Torno su un punto: le parole bastano alla poesia finché non si “sfondano”; perché le parole hanno bisogno, ogni tanto, di ricaricarsi. Allora, è bene tacere, non scrivere più, finché non riemergeranno nuovamente con tutta la loro forza. Compito del poeta, dopotutto (lo disse Pound), è mantenere la lingua in efficienza. 

Scelti per voi

 

Negli avevo allora più futuro
e meno baci sulle labbra. E dire che avrei
volentieri fatto a meno, che il baratto è riuscito
solo in un’ipotesi di meraviglia, di terrore…
C’è stato un tempo – i ciliegi erano in fiore –
in cui avrei dato per un bacio in cambio
tutto il mio futuro.

*

Fotografie

La smorfia stupefatta inoffensiva
sorpresa da un riflesso di fontana
che acceca l’occhio e svela il negativo
della fotografia dentro cui sempre
– un’aria imbambolata –
sorriderai confuso perché vivo

*

Non c’è stato inverno
non c’è stato tepore
al cambio col giorno
che d’ore – di luce –
più adorno fa l’anno
solare. Avaro nel cuore
mi saluta lui – lo saluto io
ma sembra che sia lui
a dire addio.

**
Giorgio Ghiotti (1994) è nato e vive a Roma. Autore di poesie, racconti, romanzi e saggi narrativi, collabora come docente di poesia con la Scuola Holden e scrive sulle pagine culturali de ‘il manifesto’. Ha esordito giovanissimo con Dio giocava a pallone (nottetempo, 2013), cui sono seguiti Rondini per formiche (nottetempo, 2016), Gli occhi vuoti dei santi (Hacca, 2019), Atti di un mancato addio (Hacca, 2021), Casa che eri (Hacca, in uscita a dicembre 2024). Tra suoi ultimi libri di poesia, La via semplice (Ensemble, 2020, Premio Paolo Prestigiacomo), Ipotesi del vero (LiberAria, 2023, Premio Luciana Notari), I perduti amori (Il Silmbolo, 2024) e, insieme ad Antonio Veneziani, Quaderno di statue e di vento (Edizioni Croce, 2024). Per il Corriere della Sera ha firmato il volume Poesia, per il ciclo Lezioni di Scrittura.

 

 

(la versione ridotta di questa recensione-intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 26.01.2025, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

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