Abstract*
L’intervento propone una riflessione sul rapporto fra il silenzio e la scrittura, quella autobiografica, in particolare, che attraverso lo scandaglio di sé può operare come efficace strumento della socratica cura sui. Poiché la condizione di questo rapporto si riconosce nella possibilità e capacità di ascolto che chi scrive si dà, l’attenzione si concentra sull’interazione di questi termini – silenzio, ascolto, scrittura- e sulle loro rispettive posture, rispettando comunque la priorità del silenzio, il quale, non solo del pensiero e della parola è l’antefatto, ma, restituito all’ antica radice del termine, si svela luogo di una possibile comunione universale, dimora in cui, cogliendo l’unità del tutto, è dolce l’abitare sperimentando uno stato di grazia in cui, come appunta Duccio Demetrio nel suo taccuino del silenzio, tutti i nostri sensi recuperano verginità e giovinezza.
(* intervento per Abitare il silenzio, – II Festival dell’autobiografia tra esplorazione del sé e memoria dei luoghi, ideato e diretto da Lucia Caruso, 17-18-19 maggio 2024 -, Biblioteca BELLINI Catania, a cura di Maria Liberti, docente di Filosofia, professional counselor, formatrice autobiografica)
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Il mio intervento vuole essere una riflessione sul rapporto fra il silenzio e la scrittura, con particolare riferimento a quella autobiografica. Il contenuto elaborato viene dall’esperienza che personalmente ne ho fatto e dalla documentazione di cui questa, nel tempo, ha sentito l’esigenza di corredarsi, per acquisire maggiore coscienza di sé. Entrambe le cose, la pratica, potremmo dire, e la teoria, concordano nel riconoscimento di un rapporto fra silenzio e scrittura, un rapporto stretto perché è nel territorio del silenzio che si dà la condizione essenziale a chi scrive, cioè l’ascolto; ascolto profondo, acuto, di quanto dal proprio mondo interno e da quello esterno deve affiorare e prendere forma in quella comunicazione speciale che è la scrittura, la quale, per la sua permanenza nel tempo, più di quella orale, alata, aerea, dev’essere rigorosa per garantire la trasparenza e l’efficacia del senso affidatole.
Chi scrive non lo fa sotto dettatura, né copia, né tanto meno inventa dal nulla.
Dice Magris: “Scrivere è sempre trascrivere un testo.”[1] A quale testo si allude, a quale bisogna essere fedeli, se di trascrizione si parla? L’originale da trascrivere è il testo del proprio vissuto, che inciso dentro, connesso a un fuori, a un certo punto reclama di avere voce e lasciare un segno di sé, come solo con la scrittura è possibile fare, perché in essa il tempo si distende e riposa recuperando sempre, per chi ha la pazienza di ascoltare, qualcosa che non merita di essere smarrito o di cui ancora si è alla ricerca, non sapendo forse, come Platone c’insegna, di averlo solo dimenticato.
I termini del nostro discorso sono quindi il silenzio, la scrittura, e l’ascolto in cui essi s’incontrano. Per comprenderli meglio nella loro essenza, proviamo a riproporre per ciascuno la domanda con cui Socrate mirava al cuore delle cose: ti esti? Che cosa è?
La difficoltà maggiore è relativa al silenzio, rispetto al quale lo stesso uso delle parole, rompendolo, genera una contraddizione che lo nega piuttosto che spiegarlo. Non a caso la Candiani dice: “Caro silenzio, aiutami a non parlare di te”[2], quasi che nel farlo, già lo si sciupasse. E in tono che sembra di preghiera, continua: “Aiutami ad abitarti”[3], suggerendo così un’immagine che, meno trasgressiva della parola ed anche rassicurante perché evoca la casa, ne svela un tratto: la capacità di accoglienza.
Il silenzio, quindi, come una casa o meglio una dimora, una casa cioè dove è bello indugiare e dove, senza che la mente divaghi nel prima e nel dopo, si può permanere nella quiete di ogni momento presente, com’è proprio dell’infanzia e della contemplazione che del tempo sembrano non percepire il trascorrere.
Ma per quanto l’immagine sia suggestiva, nel caso del silenzio, per noi educati alla parola, la ricerca di quella veritiera, luminosa, è necessaria, ancora di più perché, definito sempre per negazioni che ci dicono ciò che non è, del silenzio si finisce per eluderne la consistenza, piuttosto che conferirgli quella che merita, specie sapendo che la parola e il pensiero, entrambi, vengono da lui, il silenzio, che ne è l’antefatto, l’apriori, il principio in senso radicale. Infondo era il silenzio il regno di Dio prima che il suo Fiat, la parola della creazione, desse vita alle cose. Ed è questo forse che rende il silenzio quasi ineffabile, eppure un richiamo come fosse l’alfa e l’omega insieme. Una soglia e una meta.
Mi è piaciuta molto l’espressione di G. Stecchina che identifica il silenzio con lo “spazio indefinito del possibile”[4], ma poiché tale apertura estrema potrebbe suscitare sgomento, come il sublime Kantiano, ho provato ad accostarmi a questa infinità, a visitarla, quasi a volerla addomesticare senza comunque sminuirla, e così mi è sembrato di capire che possa intendersi veramente, come suggerisce poeticamente la Candiani, come una generosa, illimitata, capacità di accoglienza. Torna quindi l’idea della casa da abitare, ma una casa senza porte, aperta sempre, nella quale potersi ritrovare. È stato lavorando sulla parola e sull’etimo che ce ne restituisce il significato originario, che ho verificato la legittimità di questa interpretazione; la chiave è nella radice si del silenzio che in sanscrito conferiva alle parole il senso del legame, come l’altra parte del termine ci conferma richiamando il verbo latino ligo che ha questo significato. Scopriamo allora che il silenzio non isola, né allontana, non separa, ma nel suo essere “indefinito spazio del possibile”, tutto abbraccia come luogo di presenza e “rivelazione” in cui ciascuno, ricomponendosi nella sua unità, a colloquio con la sua integrità, non si chiude in una monade, ma in comunione con sé, salvo dal disturbo provocato dal rumore, nella essenzialità che recupera, può scoprire che comunione regna anche fra le cose, ognuna parte di un tutto, soffio di un’unica anima che vive di un respiro più grande, universale.
Così abitare il silenzio è entrare nel tutto della sua infinità senza perdersi, ma al contrario per esserci: la parte nel tutto, il tutto nella parte, come tante filosofie nel corso del tempo hanno sostenuto in quel vago confine in cui la filosofia sembrava cedere alla poesia mentre ora, con la fisica olistica, si svela geniale intuizione, profezia. Basterebbe sapere ascoltare, che è il sentire profondo, quello che avvertendo la diversità della voce dell’altro non la sente estranea, perché l’ascolto è incontro, apertura, è disponibilità all’altro; ascoltare da ab-audire nella sua assonanza con l’ubbidienza ci dice che di essa c’è una traccia nell’ascolto, ma qui non è la passività di un capo chino quanto l’essere uni corde, diversi ma empatici, capaci di entrare e uscire dal cuore dell’altro senza disturbare. Non acquiescenza quindi, ma adesione, risposta amorevole a una chiamata, un semplice “Amen”, come forse suggerirebbe Raimondi[5].
Ha ragione quindi la Candiani quando, con un aggettivo caro a Saba , definisce il silenzio “onesto”[6], facendo così giustizia alla parola che, nella nostra lingua, non ha significato univoco, non ha la chiarezza del latino dove la presenza sia del verbo silere che del verbo tacere consente una distinzione che va bel oltre il piano linguistico e investe quello concettuale, essendo nel primo, silere, il riferimento al silenzio autentico, inteso come una realtà in atto, impalpabile sì, ma limpida perché colma solo di sé, nel secondo, tacere, il riconoscimento di un silenzio ambiguo, vuoto e pieno insieme, perché ingombro di qualcosa che rimane inespresso; da qui la trasparenza e leggerezza dell’uno, in cui la parola è superflua, l’opacità e la pesantezza dell’altro in cui la parola è bloccata, compressa nell’ ingorgo del non detto.
Questa duplicità, comunque non spaventa la scrittura che nella sua dimensione riesce a comprenderla, sanando il malessere di chi la sperimenta. Come afferma la Zambrano, “non tutto si può dire”[7], e proprio ciò che non si può dire trova spazio nella scrittura, disponibile a fare anche del non detto un testo da recuperare e trascrivere, riparando il guasto di quanto prima taciuto. Quando per l’urgenza della vita, per i nostri limiti, per un qualche pregiudizio, la parola viene meno, lasciando nel limbo dell’inespresso chi non si è dato la capacità, la forza o il tempo di pronunciarla, la scrittura accoglie la parola mancata e solleva dal senso di personale inadeguatezza che l’omissione spesso provoca. Con essa e in essa, quanto in qualunque modo perduto, ritorna; quel sentirsi fuori, stranieri, “l’esilio” per dirla ancora con la Zambrano, diventa “patria”[8], “il labirinto” della Szymborska, attraverso intime gallerie, trova “la via di fuga”[9].
Ma vado ora alla mia esperienza. Personalmente, parafrasando l’incipit della Recherche in cui Proust scrive “ per molto tempo sono andato a letto presto la sera”[10], io potrei dire: da molto tempo mi alzo presto la mattina e, nel silenzio buono delle prime ore di un nuovo giorno, in una porzione di tempo solo mia, al riparo da ogni rumore, mi ritrovo a scrivere, quasi che un richiamo imperioso a farlo mi avesse svegliata, come succede quando ci portiamo dentro il pensiero di un appuntamento al quale non si può mancare. Il rapporto con la scrittura è infondo un appuntamento con se stessi; qualunque sia l’oggetto, chi scrive dice sempre di sé, di ciò che ha vissuto e che lo accompagna. Nella continuità coscienziale che siamo, il gomitolo di Bergson, ogni cosa dice di noi, ma a una condizione: saper ascoltare, fare del silenzio una scelta; ancora di più nell’autonarrazione dove il soggetto e l’oggetto coincidono eppure devono distinguersi perché il bisogno che bussa incalzante, è proprio quello di “avere notizie”[11] di sé, cioè sapere chi siamo, specie se le cose intorno cambiano e quindi è difficile capire di noi, costretti ad essere e divenire, come fossimo noi ed anche altro da noi. Così, ad esempio, nei momenti di passaggio, quando la nostra identità sembra appannarsi, farsi confusa, incerta, scrivere è ritrovarsi, un movimento dello spirito tipico di chi infondo sa già vagamente cosa cerca e quindi attraverso la dedizione che la scrittura richiede può riconoscerlo in un rinnovato rapporto fra sé e le cose.
Per questo, considero il mio incontro tardivo con la scrittura, avvenuto in un’età avanzata, un dono: il dono che l’autunno della mia vita, come fa quello delle stagioni con i suoi frutti, ha voluto riservarmi, forse non a caso, proprio in un’età delicata come quella matura, “grande”[12] secondo la Caramore, in cui occorre attrezzarsi per vivere serenamente il tempo che si ispessisce e si assottiglia insieme.
Del resto, testimonianza del potere dell’autobiografia viene fin dall’antichità, quando era consigliata come esercizio spirituale finalizzato alla conoscenza, alla cura e alla realizzazione di sé, l’eudaimonia, cioè la felicità da ciascuno perseguibile, e viene da tanta cultura a noi più vicina attraverso l’ampio dibattito in cui ormai si confrontano filosofia, psicologia e counseling per approfondirne il senso e le possibili applicazioni.
“La vita” dice Marquez “non è quella vissuta, ma quella che si racconta e come la si racconta per ricordarla”[13]. Non il mondo ma le sue visioni, come c’insegna la fenomenologia, sono quelle che fanno la storia e le storie; proprio questo dà efficacia terapeutica all’autonarrazione dove con la propria visione ci si confronta in una dimensione in cui l’ascolto di sé si fa maieutica che ci svela a noi stessi, non per una mimetica riproposizione, ma per nuova nascita che, non più frutto del caso o della necessità, ci vede soggetti, continuamente in cammino e in relazione. Infatti, la scrittura ci dà una postura diversa rispetto alle cose, “filosofica”[14], dice Sini, perché in essa siamo noi a incidere i segni dei nostri vissuti e non a subirli. Inoltre, cito da Nicola Gardini, “Scrivendo, io decido dove andare, come, a che velocità. La penna, dandosi un tema, è lei che circoscrive rispetto alla vita il campo d’indagine”[15].
Tanti sono, in effetti, i bisogni a cui può rispondere l’autobiografia ma, infondo, ricorrente è quello della riparazione la quale, che sia di un guasto, di una perdita, di una distrazione, in ogni caso, richiede esercizio di consapevolezza sia quando bisogna aderire meglio a sé, recuperare il senso della propria soggettività, quella che in Foucault si può definire “scrittura esercizio”, sia quando, al contrario, bisogna deporre qualcosa di noi e darsi la capacità del cambiamento, decostruirsi-direbbe Derridda-senza opporre resistenza al nuovo ma lasciandosene lavorare, la “scrittura esperienza”[16]. Non a caso lo stesso Foucault la considera comunque una “tecnologia del sé”[17], cioè strumento in cui il conoscersi non è fine a se stesso ma opportunità per vivere meglio, in sintonia col proprio modo d’essere che la scrittura, complice il silenzio, aiuta a scoprire. E questo non per chiudersi in una dimensione solipsistica ma al contrario.
Scrivere di sé è anche ricomporre le tessere di un mosaico, legare in un unico libro capitoli diversi. Siamo tutti bisognosi di storia, cioè di salvare noi e la nostra realtà dal caso, individuando un filo conduttore, e ne siamo tutti portatori, magari senza saperlo, perché della storia personale, come di quella collettiva, tutto fa parte: ciò che si ritiene tramontato o smarrito è forse più presente di altro nella misura in cui la sua assenza ha contribuito a fare di noi la persona che siamo. Le cose, le persone, a mano a mano o d’improvviso, scompaiono, le situazioni variano, ma ciò che abbiamo vissuto e come lo abbiamo elaborato, ci accompagna. Difficile, forse impossibile distinguere fra noi e la nostra storia che muta e permane, facendoci diversi se pure identici. Ma il senso che unifica e riscatta tutto, anche il dolore, è nell’insieme il quale, proprio perché tale, non si lascia scoprire in itinere ma a stagione inoltrata.
Come ci ricorda la Cavarero nel suo Tu che mi guardi, tu che mi racconti [18], è nella distanza che può scorgersi come ciò che sembrava casuale ed anche gli ostacoli, sono parte di un disegno in cui tutto si ricompone in modo unitario.
Nel racconto che può avvenire solo dopo, la distanza è data dal tempo trascorso, se poi il racconto si affida alla scrittura, questa che ripercorre e filtra, contribuisce a generarla. La scrittura pone infatti un interspazio e favorisce insieme un gioco delle parti: chi scrive, specie se scrive di sé, come già prima accennato, non è solo autos, è anche eteros. È questa la “bilocazione cognitiva”[19] di cui parla Demetrio che anche Ricoeur studia quando parla di sé come un altro[20], condizione che aiuta a guardare e guardarsi entro uno spessore temporale che solo il divenire della scrittura può generare perché in essa il tempo ha modo di declinarsi in varie direzioni: il passato che ritorna, il futuro che si anticipa e un presente che, nella dimensione narrativa, li comprende per capire la direzione, cosa di noi può cambiare e cosa si deve accettare.
Le cose, tutte, nella scrittura possono trovare ospitalità. Affidare a lei certe esperienze è veramente tutelarle in un luogo speciale capace di conservarle senza chiuderle. Ancora di più, quando, avanti negli anni, si fa dolce la compagnia di quella traccia di noi che si chiama memoria, ma non ci sono più gli interlocutori con cui condividerla, consegnare alla scrittura i ricordi che sono la memoria del cuore, è veramente prolungarne la vita e operare la magia di ridonare presenza a ciò che non è più, realizzando così quel ritorno negato che è il male della nostalgia, il rammarico delle occasioni mancate, del tempo che se pure non è andato perduto, è comunque trascorso. E questo non per idolatrare la memoria, ma per esigenza di verità, secondo una concezione in cui lo sguardo indietro, com’è stato detto per Lalla Romano, si fa metodo e prospettiva.
Scrivere comunque non è un gioco, se mai una scuola con una sua disciplina.
Quando senti di dover dire di te, può esserci l’illuminazione, una luce che inonda come fosse una piena d’acqua, in grado di far scorrere la penna e ancora più il pensiero al punto che quella stenta a stargli dietro; ma questi sono momenti di grazia in cui si danno epifanie che suggeriscono la parola senza sforzo alcuno. Quando invece all’esigenza di dire non fa subito riscontro un pensiero limpido, la parola annaspa alla ricerca di sé, provocando il disagio delle cose mancate. La scrittura diventa allora un richiamo a cui solo con un silenzio maggiore ed un ascolto più profondo si può rispondere. Solo privilegiando la loro compagnia, ciò che sembrava afono recupera voce e consente a chi in essa si cimenta di rintracciare il proprio testo interiore senza il timore di smentirlo: un’operazione questa che seda l’inquietudine iniziale e che, ponendo di nuovo in essere le cose, sembra dare loro una seconda possibilità in cui tutti i sensi compreso quel sesto senso che, a dire di Demetrio, è il pensiero, possono attardarsi recuperando tracce che, nella fretta o nel frastuono della vita, erano sfuggite. Questo, è vero, non modifica i fatti accaduti ma cambia il nostro rapporto con loro e quindi la prospettiva futura, perché la parola giusta “aggiusta” anche il nostro rapporto con le cose. Così, la scrittura, “il settimo senso”[21] che gli altri ospita e attraversa, sempre secondo Demetrio, nel suo apparente riproporre, rigenera, trasforma, svelandosi femminile e maschile insieme.
Per questo nel suo territorio, aspro nel cammino iniziale, come la nostra pietra lavica, ma poi dolce e generoso, come i nostri vigneti di settembre, io ho avvertito una rinnovata appartenenza e la possibilità di un riscatto per quello che, alla mia età non più giovane, ancora si muove dentro. C’è un tempo per tutte le cose: anche l’autunno ha i suoi fiori, non solo foglie che si accartocciano, ripiegandosi su di sé. Forse perché la scrittura anche lei, come la nottola di Minerva, viene dopo, “sul far della sera”, un dopo in cui non c’è rumore e noi, nella quiete del silenzio, “portatori”[22] noi stessi del silenzio, come ama dire Raimondi, avendone attraversato le veglie, ci ritroviamo più liberi: sicuramente più veri.
in copertina La cosa reale di Edward Hopper
[1] Magris, C., Utopia e disincanto, Garzanti, Milano, 2001, p.108.
[2] Candiani, C.,L., Il silenzio è cosa viva, Einaudi, Torino, 2018, p.50.
[3] Ibidem
[4] Stecchina, G., Silenzio. Profili tematici di una modalità comunicativa non gestuale, in A. Tafuri (a cura di) Annuario 2009-2010, Trieste, EUT; 2011, pp.76-106.
[5] Raimondi, S., Portatori di silenzio, Mimesis, Milano, 2012.
[6] Candiani, C., L., op. cit. p.50
[7] Zambrano, M., Perché si scrive, in Verso un sapere dell’anima, Raffaello Cortina, Milano, 2011.
[8] Zambrano, M., L’esilio come patria, a cura di A. Savignano, Morcelliana, Brescia, 2016
[9] Szymborska, W., Labirinto, in La gioia di scrivere. Tutte le poesie. 1945-2009, Adelphi, Milano, 2009, p. 667.
[10] Proust, M., La strada di Swann, in La ricerca del tempo perduto, Mondadori, Milano, 1993.
[11] L’espressione riprende un noto aforisma di Alda Merini “Da molto tempo non ho più notizie di me”
[12] Caramore, G., L’età grande, Garzanti, Milano, 2023.
[13] Marquez, G., G., Vita di Gabriel Garcia Marquez, Mondadori, Milano, 2011.
[14] Sini, C., Filosofia della scrittura, Laterza, Roma-Bari, 1994.
[15] Gardini, N., Le 10 parole latine che raccontano il nostro mondo, Garzanti, Milano, 2018.
[16] Lorenzini, D., Scrittura e sperimentazione di sé in Le parole e le cose, www.leparoleelecose.it aprile 2016. L’autore qui nelle due espressioni “scrittura esercizio” e “scrittura esperienza” sintetizza i due modelli di scrittura esaminati da Foucault in diversi suoi saggi compresi in: Foucault, M., Dits et écrits II, 1976-1988, a cura di D. Defert e F. Ewald, Paris, Gallimard, 2001.
[17] Foucault, M., Tecnologie del sé, in Martin H., Gutman H., Hutton P., (a cura di) Un seminario con M. Foucault. Le tecnologie del sé. Bollati Boringhieri, Torino, 1992.
[18] Cavarero, A., Tu che mi guardi, tu che mi racconti, Feltrinelli, Milano, 2011
[19] Demetrio, D., Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina, Milano, 1996.
[20] Ricoeur, P., Sé come un altro, Jaca Book, Milano, 2016
[21] Demetrio, D., I sensi del silenzio, Mimesis, Milano, 2012.
[22] Raimondi. S., Portatori di silenzio, Mimesis, Milano, 2012.