Parola d’Autore

Jamil e la nuvola Ho scritto Jamil e la nuvola nel 2008 conservando poi il manoscritto tra le tante cose che non ho ancora pubblicato. Trovare un editore cosciente e generoso intellettualmente non è stato semplice. Surya Amarù, eroica e saggia fondatrice della Splēn, conosceva il mio lavoro e mi ha cercata. Tra noi si è subito stabilita una salda e onesta intesa che ha portato oggi alla nascita di questo libro importante, resto prezioso dalla copertina di Gianni De Conno.

Andando a ritroso nel tempo, due immagini hanno dato inizio alla scrittura di Jamil. Il volto sporco (incontrato nel reportage di un giornale) di un bambino egiziano con un ciuffo di cotone tra le mani, una mosca posata vicino a un occhio come il grumo di una lacrima secca, e il deserto del Sahara, quel mare di sabbia che induce lo sguardo all’erranza verso l’infinito. Il deserto è un luogo magico, pieno di niente, mutevole nei suoi tratti essenziali. Uno spazio caldo di luce dove l’immenso della notte ospita l’arrivo delle stelle e della luna. Mi serviva lo spazio di una sconfinata libertà per parlare della schiavitù di un bambino costretto a lavorare la terra nella fatica e con la forza di un “uomo”. Il lavoro minorile è un piaga che investe ancora il nostro mondo nonostante la Convenzione di Ginevra, negli anni Ottanta, abbia proclamato la carta dei Diritti del bambino. Riguarda non solo paesi come il Brasile, Colombia, Cina, Pakistan, solo per citarne alcuni. La schiavitù di un minore è prima di tutto il frutto marcio di un sistema economico che investe in una manodopera a basso costo per aumentare il proprio utile. Ciò che si ruba a un piccolo è il tempo verde dei suoi anni, il gusto del gioco, della noia, della libertà. La necessità di ricavare un guadagno, anche minimo, cancella in quegli occhi la spensieratezza per sostituirla con la coscienza del dolore. I bambini, in questo secondo millennio, continuano ad essere sfruttati. Sono tanti e senza nome. Li troviamo a scavare nella spazzatura, prostituirsi nei bordelli, li vediamo vendere droga, fare nodi ai tappeti, chiusi in luoghi angusti o lasciati scalzi in strade solcate dai rivoli delle fogne.

In questo romanzo ho consegnato a Jamil una salvezza: il potere dell’immaginazione, piacere antico e liberissimo. Jamil nei momenti più critici del romanzo si rifugia in un mondo fantastico e leggero di poesia, un mondo dove i tappeti possono volare e i Geni aiutare i più deboli e far giustizia. jamil_coverPrima_piccUn’ opportunità la fantasia – è qui voglio essere polemica – che il nostro presente tende a sopprimere. La fantasia dei nativi digitali è schiava della bieca magia di touch screen che rendono tutto facile, immediato. La rete tesse catene che non producono piaghe ma lentamente si rivelano pericolosissime rubando ai bambini (e anche a noi adulti) il tempo per essere vigili e presenti in un presente concreto.

I romanzi possiedono una vita che si rinnova nell’atto della lettura. Un libro chiuso serra un mondo intatto, un libro schiuso diventa esistenza. Scrivere vuol dire passare ore e giorni dietro una porta chiusa. L’atto della scrittura è sì liberazione ma soprattutto prigionia. La pubblicazione di Jamil e la nuvola mi rende felice perché per la prima volta un libro di finzione servirà ad aiutare un bimbo vero. Chi leggerà questo romanzo porterà nel proprio immaginario e nel cuore la consapevolezza che da qualche parte del mondo un bambino potrà studiare e migliorare la propria condizione di povertà.

Questo libro sarà per lui un filo d’argento, un aquilone per correre nel vento.

 

Un estratto dal libro

Era la prima volta che io e Merib andavamo di notte nel Deserto Bianco. Merib aveva pensato a tutto. Dopo il giardino degli alberi da frutto cominciavano le palme. Al tronco di una palma Merib aveva legato uno dei dromedari di suo padre. In verità quel dromedario si chiamava Mizar. Mizar era stato il regalo di suo padre Habib quando gli anni di Merib erano diventati dieci. Merib aveva scelto questo nome perché Mizar è una stella vicinissima a un’altra stella che è anche vicina alla stella che segna il Nord. «Di Mizar posso fidarmi Jamil. Lui non si perderà mai.» Così Merib mi aveva detto.
Mizar ci aspettava accovacciato sulla sabbia. Masticava tranquillo muovendo le labbra morbide.
– Mizar! Siamo qui…
Sentendo la voce di Merib, il dromedario Mizar piegò il lungo collo verso di noi.
– Mizar ci porterà da Gedin, Jamil. Arriveremo prima dell’alba. Saliamo!
Mizar ci offrì la sua gobba. Poi fece forza sulle zampe e si alzò con leggerezza.

Due bambini su una gobba mansueta
scivolano nella notte come una cometa.
Trovare devono Gedin il beduino
per conoscere il senso di un destino.

Va il dromedario nella sabbia d’Oriente:
verso il Deserto Bianco dirige il proprio andare
tra le morbide dune di un candido mare.

Il Deserto Bianco di notte restava bianco. Anche le ombre si facevano bianche e quindi bianca anche la paura. Una paura bianca è diversa da una paura nera. Dalla paura nera si scappa. Dalla paura bianca no: la paura bianca si attraversa. Si può fare, quando si hanno un dromedario e un amico.
Le zampe di Mizar pestavano la sabbia di farina. Il cielo era pieno di stelle luccicanti. Erano tantissime, più di quelle che si vedono dall’oasi. Anche la luna nel deserto era diversa: era ancora più bianca tra le bianche dune.
– Quella stella è Mizar, Jamil. La vedi?
– La vedo Merib.
– L’altra vicinissima si chiama Alcor.
– Come lo sai?
– Ho un libro dove sono scritti tutti i nomi delle stelle.
– Le conosci tutte Merib?
– Molte, non tutte.
– Pensi che Mizar possa sbagliare la pista?
– Che dici Jamil! È impossibile e poi anch’io sono stato qui altre volte di giorno con le carovane di mio padre. Tra poco incontreremo le rocce.
Io non avevo mai camminato tanto nel Deserto Bianco. Sapevo che c’erano delle rocce dalle forme strane perché molti turisti arrivano a Farafra per vederle. Le chiamavano sculture di gesso. Quando Abdulal, mio padre, vedeva i turisti diceva: «I turisti sono uomini ricchi Jamil. Guarda i loro vestiti puliti. Sono fatti con il nostro cotone: il miglior tessuto da comprare in tutti i bazar del mondo!»
Quando diceva queste cose non capivo se mio padre era orgoglioso oppure arrabbiato.
– Tu le hai viste le sculture di gesso, Merib?
– Certo Jamil. Le sculture di gesso sono le rocce del Deserto Bianco. È il vento che le ha fatte soffiando nei secoli. Il khamsin soffia sulle rocce e le consuma come vuole lui. Alcune rocce hanno la faccia e fanno le smorfie. Hanno i kūfiyya dei beduini. Gedin monta la sua tenda vicino a uno strano dito che tiene in equilibrio una grande pietra. Molte rocce nel deserto somigliano a quella: i turisti le chiamano funghi. La roccia di Gedin però è diversa da tutte le altre.
– Perché Merib?
– Perché quella pietra è storta e potrebbe cadere da un momento all’altro, anche davanti ai nostri occhi! Pensa che fortuna Jamil…
– Sarebbe davvero una fortuna Merib? E Gedin?
– La tenda di Gedin sta dall’altra parte. Lui conosce il deserto, queste cose le prevede.
– Sa anche che noi stiamo andando da lui?
– I beduini aspettano sempre gli ospiti.
Stare sopra un dromedario è comodo perché se si vuole si può anche dormire. Proprio dormire forse non è facile. Sopra un dromedario tutt’al più si può sonnecchiare. La maestra a scuola ci ha spiegato la differenza. Se si dorme è difficile svegliarsi perché di solito si dorme in un letto fermo. Se sonnecchi invece, puoi da un momento all’altro aprire un occhio e poi l’altro.
Io e Merib stavamo vicini sulla gobba di Mizar. Il suo dondolante passo ci cullava e ci faceva compagnia.
Nel Deserto Bianco il silenzio della notte era il nostro cuscino.
Prima di sonnecchiare Merib mi aveva detto: «Riposiamoci un poco Jamil. Non appena Mizar vedrà il fuoco acceso davanti alla tenda di Gedin, saprà come avvisarci.»
Così avevamo chiuso i nostri occhi: prima uno e poi un altro.

Sonnecchiavamo immersi nella notte bianca. Una luce di latte salì dal mare di sabbia mostrando al dromedario la rotta del suo cammino.
Ad un tratto una polvere nebbiosa ci ha investito e non c’è stato neanche il tempo di aprire gli occhi che abbiamo cominciato a tossire.
– Cosa succede Merib? Scappiamo! C’è una tempesta di sabbia!
– No, Jamil. Non è possibile! La polvere è ferma: non c’è vento.
– Da dove viene?
– Non lo so. Proviamo a cacciarla via, sembra fumo.
– Cosa brucia?
– Non lo so Jamil.
Lentamente la polvere scomparve.
Davanti alle zampe di Mizar ora c’era una grande pietra e sopra la pietra ci stava un uomo accovacciato. Portava la gallabia dei beduini.
Merib scoppiò a ridere.
– Guarda Jamil! Guarda cosa è successo… è caduta la pietra!
– La pietra che stava storta davanti alla tenda del beduino?
– Sì, proprio quella! Siamo arrivati Jamil, siamo da Gedin!

Chi dice al vento che è tempo di soffiare sulla sabbia del deserto per disegnare nastri sottili, tracciati per unire in un solo e labile istante destini e desideri? Perché ad un tratto una pietra rompe il suo equilibrio per cadere giù con un tonfo polveroso? Arcane circostanze determinano mutamenti di tale natura. Non esistono risposte immediate, esistono solo magiche attese.

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