Jules Laforgue, Ultimi versi (a cura di Francesca Del Moro)

Jules Laforgue, Ultimi versi
Introduzione, traduzione, note critiche, bibliografia

a cura di Francesca Del Moro
Marco Saya Editore, 2020

 

«Venuto troppo presto, ripartì senza scalpore» recita il penultimo verso della poesia Simple Agonie, svelando come Laforgue fosse consapevole di essere un precursore, difficilmente associabile a una delle numerose correnti che animavano in quegli anni la vita letteraria parigina. Del resto, visse in gran parte lontano da Parigi, in Germania, come lettore dell’Imperatrice Augusta, il che gli permise di mantenere le distanze dal dogmatismo estetico dei simbolisti e di sottrarsi a qualsiasi tipo di scuola cercando il proprio modo di fare arte per sopportare, e al tempo stesso sublimare, l’imposizione di vivere. Se la sua influenza sui contemporanei fu scarsa, nondimeno la sua opera segna una sorta di spartiacque nella storia della poesia, non soltanto francese.

Eppure, pochissimi poeti del novecento, a quanto è dato sapere, hanno riconosciuto il proprio debito nei suoi confronti; tra questi, Thomas Stearns Eliot ed Ezra Pound. Il primo, in particolare nel volume Prufrock and Other Observations del 1917, accoglie il modello di uno stile poetico aperto al quotidiano, che riflette amaramente sull’insignificanza e sulla banalità dell’esistenza, mentre da Laforgue Ezra Pound apprende il valore della distanza ironica e dell’utilizzo della lingua corrente.

Per Jules Laforgue il ricorso all’anarchia linguistica e stilistica nonché, negli ultimi anni, alla disarticolazione delle strutture metriche tradizionali fu una dichiarazione di unicità umana e poetica, una vera e propria liberazione della poesia dai suoi vincoli, un esempio che altri seguiranno negli anni a venire. Eppure, egli viene tuttora considerato, tra i poeti del suo tempo, al massimo come il “maggiore tra i minori”, probabilmente perché ancora oggi resta valida l’affermazione del critico americano Robert Ralph Bolgar: «Leggi le poesie o i racconti di Laforgue senza la dovuta attenzione e quasi certamente non ti piaceranno […] contengono più novità di quante la mente possa accettare senza uno sforzo consapevole»

(dall’Introduzione di Francesca Del Moro)

 

DUE PAROLE SULLA TRADUZIONE

Devo riuscire a ottenere la rima tra ‘gabbiani’ e ‘turbolenti’. Scrivo le due parole su un foglio e lo batto con un martello. So che a forza di battere riuscirò a ottenere la rima tra queste due parole.

Luigi Malerba, Diario di un sognatore

Rimare o non rimare, questo è il problema. Se sia più nobile contorcersi in funambolismi verbali e acrobazie del pensiero, mescolare le parole e poi riunirle in un nuovo ingegnoso puzzle oppure arrendersi all’evidente difformità sonora tra le lingue e, teorizzando qualche filosofia contro la rima tradotta, porre fine a essa.

O forse non è questo il problema. Riuscirci o non riuscirci. Io non so se ci sono riuscita appieno ma ci ho provato. Rimario alla mano, thesaurus elettronico in margine allo schermo, la mia mente ha fatto capriole, a volte ruzzolando malamente. Ma poi si è sempre, credo, rialzata con una certa dignità. Alla fine, la rima ti obbliga a considerazioni enigmistiche che sulle prime sembrano nemiche di immaginazione e ispirazione. In definitiva, di tutto ciò con cui si tende a identificare l’essenza della poesia. Così il traduttore araldo del verso libero fa di necessità virtù ed è pronto a rinunciare al fastidio della rima, per salvaguardare il più possibile lo spirito dell’opera ed essere quanto mai vicino alla lettera. Ma come dire che la rima è un inutile orpello e scegliere una strada diversa e invero la più frequentata rispetto a quella che serpeggia tra le sue trappole? Come scegliere questa strada se il poeta stesso ha percorso l’altra? Se ha dovuto piegare i suoi versi ai vincoli sonori liberamente assunti? Magari rinunciando alla parola che avrebbe preferito, che gli era per prima venuta alla mente felicemente ma che non rimava?

Parlando dei suoi ultimi versi, Laforgue stesso disse di aver dimenticato la rima. Ed è vero, ma solo qualche volta. La rima è quasi ovunque presente, è una rima libera che si fa beffe di qualsiasi schema fisso, coronamento di versi, quelli sì che, infischiandosene di ogni misura, si sbizzarriscono nelle lunghezze e nei ritmi più disparati. Una rima dispettosa che in rari casi si maschera dietro le assonanze, che a volte sparisce per poi ricomparire magari all’interno di un verso, magari tra parole uguali. La rima c’è, e se c’è ha una sua ragione. Si tratta forse dell’ultimo baluardo di una forma che si vuole esplosa, delle macerie di vecchi alessandrini incasellati in griglie sonore da cui sono schizzati fuori versi tesi e rilasciati come elastici, mescolanze di suoni in nuove musicali combinazioni, ricche di echi e dissonanze. Le poesie di Laforgue nascono da una deflagrazione: delle vecchie forme non restano che le rime, a volte e solo a volte scordate, dei metri rimangono macerie e il suono si sposa a una sintassi paratattica, esclamativa, vocativa, allo scorrere frammentario del pensiero.

Come riuscire a ricreare tutto questo combattendo contro le parole che si prendono gioco dei principi traduttivi, dei vocabolari, dei rimari? Ho provato a conservare nella traduzione tutti i caratteri salienti che ho riconosciuto in questi ultimi versi dell’opera di Laforgue: ho mantenuto la rima seguendola nei suoi giochi, ho ricreato assonanze e allitterazioni, ho lasciato alternare versi brevi e lunghi, ho fatto convivere momenti alti con espressioni brusche e colloquiali. Ho tentato di assecondare le giravolte dello stile, a tratti enfatico a tratti dimesso, mantenendo esclamazioni, puntini di sospensione, espressioni prosastiche o auliche, giochi di parole, cadute seguite da impennate di tono. Soprattutto per risolvere i problemi posti dalla rima ho inserito qualche enjambement, col pretesto della sua appartenenza alla tradizione poetica italiana, e a volte mi sono concessa qualche trucco (le cosiddette zeppe, ovvero l’aggiunta di parole non troppo pregnanti e comunque in linea con la poetica dell’autore) e qualche deviazione in termini lessicali. È stato questo il prezzo da pagare per la scelta che ho compiuto in partenza: piccoli tradimenti, in cui spero si riconosca la fedeltà allo spirito dell’autore, alla sua cifra stilistica, in definitiva al valore della sua poesia, di cui ho cercato di restituire ogni aspetto.

Analizzate verso per verso, con il francese a fronte, le mie traduzioni prestano il fianco senz’altro a obiezioni e a soluzioni più vicine all’originale sul piano del lessico e della sintassi, ma queste sarebbero attuabili solo al prezzo della rinuncia a rimare, la qual cosa, essendo la rima appunto estesa a quasi tutti i versi, con rarissime eccezioni, renderebbe il tradimento continuo e regolare, fino a farne una vera e propria relazione parallela. Pur riportata come è consuetudine a fronte dell’originale, questa traduzione non è da intendersi come ausilio alla lettura del francese ma come opera leggibile e (si spera) apprezzabile in sé. Essendo la suddivisione strofica dei Derniers Vers molto libera, e non riconducibile a uno schema rigoroso, in alcuni casi il numero di versi delle strofe italiane è diverso da quello delle corrispondenti francesi. Tale difformità risponde, di volta in volta, alla necessità di salvaguardare aspetti a mio parere più rilevanti. Ciò può rendere complicata una comparazione tra le due versioni ma non è questo lo scopo del mio lavoro, che invita a leggerle autonomamente (chi le voglia confrontare per ravvisare le pecche della traduzione subirà già la mia piccola vendetta nella fatica in più che questa operazione gli richiederà).

Alla fine, in ogni traduzione inevitabilmente qualcosa si serba e qualcosa si perde. Sono consapevole di quanto la mia posizione possa apparire reazionaria al giorno d’oggi, in cui è ormai consolidata la pratica di tradurre in versi liberi componimenti rimati o strutturati secondo uno schema metrico rigoroso. Una consuetudine che mi lascia alquanto perplessa: in una fase storica in cui si tende sempre più a porre l’accento sulla poesia come forma, arrivando talvolta a negare qualsiasi valore ai contenuti, è proprio un elemento formale così cruciale, come la scansione metrico-ritmica, che il più delle volte si preferisce sacrificare in toto traducendo. Il mio lavoro è frutto di una direzione che parte dall’analisi dell’opera e persegue l’obiettivo di rispettare tutti gli aspetti riscontrati, senza tralasciare nessun elemento che la descriva, che la investa nella sua globalità. Perdendo semmai qualcosa, o aggiungendo, compensando, in luoghi particolari.

Queste traduzioni sono il risultato di passione e sforzo, di riflessione e qualche azzardo. Mi auguro che, dovunque sia, Jules Laforgue non mi sbeffeggi più di tanto. Ma, tutto sommato, non posso sperare di salvarmi dal sarcasmo che lui non risparmiava neppure a sé stesso.

Francesca Del Moro

Le Mystère des trois cors

Un cor dans la plaine
souffle à perdre haleine,
un autre, du fond des bois,
lui répond ;
l’un chante ton taine
aux forêts prochaines,
et l’autre ton ton
aux échos des monts.
Celui de la plaine
sent gonfler ses veines,
ses veines du front ;
celui du bocage,
en vérité, ménage
ses jolis poumons.
– Où donc tu te caches,
mon beau cor de chasse !
Que tu es méchant !
– Je cherche ma belle,
là-bas, qui m’appelle
pour voir le Soleil couchant.
– Taïaut! Taïaut! Je t’aime !
Hallali ! Roncevaux !
– Etre aimé est bien doux ;
mais, le Soleil qui se meurt, avant tout !
Le Soleil dépose sa pontificale étole,
lâche les écluses du Grand-Collecteur
en mille Pactoles
que les plus artistes
de nos liquoristes
attisent de cent fioles de vitriol oriental !…
Le sanglant étang, aussitôt s’étend, aussitôt s’étale,
noyant les cavales du quadrige
qui se cabre, et qui patauge, et puis se fige
dans ces déluges de bengale et d’alcool !…
Mais les durs sables et les cendres de l’horizon
ont vite bu tout cet étalage des poisons.
Ton ton ton taine, les gloires !….
Et les cors consternés
se retrouvent nez à nez;
ils sont trois ;
le vent se lève, il commence à faire froid.
Ton ton ton taine, les gloires !…
– « Bras-dessus, bras-dessous,
« avant de rentrer chacun chez nous,
« si nous allions boire
« un coup ? »
Pauvres cors ! pauvres cors !
Comme ils dirent cela avec un rire amer !
(Je les entends encor).
Le lendemain, l’hôtesse du Grand-Saint-Hubert
les trouva tous trois morts.
On fut quérir les autorités
de la localité,
qui dressèrent procès-verbal
de ce mystère très immoral.

 

*

 

Il mistero dei tre corni

Un corno nella vallata
canta a voce spiegata,
un altro gli risponde
dalle selve profonde;
ton ten uno intona
ai boschi della zona,
ton ton l’altro si lagna
con gli echi della montagna.
Al corno della vallata
ogni vena si è gonfiata,
gli si è gonfiato il petto,
mentre il corno del boschetto
sembra invero che riposi
i polmoni graziosi.
– Sei davvero spietato
mio bel corno adorato!
Dove sei rintanato?
– A cercare il mio amore
che laggiù mi ha invitato
a vedere il sole che muore.
– Dalli, dalli, ti amo, oh sì!
Roncisvalle! Hallalì!
– È così dolce l’amore;
ma, anzitutto, il sole che muore!
Il Sole depone la stola pontificale,
apre le chiuse al Collettore Generale
in mille Pattoli mai visti
che i più artisti
dei nostri liquoristi
attizzano con cento fiale di vetriolo orientale!…
La pozza sanguinosa ora s’ingrossa, ora trabocca
e la quadriga di giumente annega in quel cruore:
e si impenna, e sguazza e si blocca
nei diluvi di bengala e liquore!…
Ma le ceneri dell’orizzonte e le dure sabbie senza esitazione
hanno bevuto questi veleni in esposizione.
Ton ton, ton ten, che celebrazione!…
Tristi i corni da caccia
si ritrovano faccia a faccia;
sono tre in questo momento:
comincia a far freddo, si alza il vento.
Ton ton ton ten, che celebrazione!…
– «A braccetto, a braccetto,
invece di rincasare,
che ne dite di andare
a bere un goccetto?»
Poveri corni! Poveri corni!
Con che sorriso amaro l’hanno detto!
(La loro voce sembra che ritorni).
L’indomani l’ostessa del Grand-Saint-Hubert
li trovò morti tutti e tre.
Furono chiamate le autorità
della località
che redassero il verbale
di quel mistero assai immorale.

Potrebbero interessarti