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Per Ianieri Edizioni, collana L’Angiolo, diretta da Federica D’Amato, è uscito La consolazione della poesia (Antologia) con il contributo dei poeti: Antonio Bux, Sonia Caporossi, Alessio Di Giulio, Francesco Iannone, Valerio Nardoni, Giuseppe Nibali e Bernardo Pacini. “La collana L’Angiolo ospita i poeti italiani attraverso una proposta di lettura ben precisa: non a pagamento, edizione cartacea di pregio a tiratura limitata, numerata ed autografata dall’autore, con un simbolico prezzo di copertina che intende promuovere l’incontro tra la poesia contemporanea e un eterogeneo pubblico di lettori”. Riportiamo, di seguito, due stralci, dall’introduzione e dalla postfazione, e sei poesie scelte per noi dalla direttrice della collana.

Ho voluto chiedere a sette amici una soluzione sul tema della consolazione della poesia, sapendo di porli davanti a una questione enorme, vexata quaestio forse pensabile solo attraverso i tentativi che il poeta fa della poesia stessa. Sette nuove voci tra le più autentiche della poesia italiana contemporanea che hanno risposto all’appello in modi anche molto diversi gli uni dagli altri, ma tutte accomunate dalla volontà di ascoltarsi, facendo risuonare, senza retorica, il silenzio dei propri destini. Ho chiesto loro, provocandoli, una nota “autocritica” sull’argomento proposto, a introduzione dei sei componimenti inediti che di ognuno ci suggeriscono il respiro, il tono e la profondità della propria ricerca letteraria. All’ottavo amico, lo scrittore Giuseppe Munforte, ho chiesto di consolarne, con la prosa, la poesia.

(uno stralcio dall’introduzione di Federica D’Amato)

C’è qualcosa di disturbante e allo stesso tempo di irrinunciabile nell’idea della consolazione, e i versi di questa raccolta, che ne definiscono la possibilità attraverso la poesia, restituiscono alcune sue decisive significazioni. Alludono alla sua presenza e alla sua assenza nella nostra inquietudine, nel movimento di immersione e allontanamento dalla vita che batte come un cuore nelle nostre giornate. La consolazione dell’amore in quanto fusione, scacco della separatezza (Caporossi); la consolazione dall’ingiustizia (Di Giulio) e l’impossibilità della consolazione, della ricomposizione, in quanto la vita è l’inconsolabile (Bux) e il linguaggio non fa che riproporre la ferita (Pacini) che chiede consolazione. L’azione consolatoria della poesia comporta un rischio di subordinazione, di sottrazione, e allo stesso tempo apre a una possibilità di conforto in quanto relazione con il mistero della realtà (Iannone). La commozione prodotta e accolta dalla poesia è una consolazione provvisoria (Nibali), la sua leggerezza sfugge al discorso (Nardoni). Sono versi che chiedono al lettore di porsi in modo forte queste domande. Possiamo trovare consolazione? Possiamo desiderare consolazione?

(uno stralcio dalla postfazione Giuseppe Munforte)

   

 

Antonio Bux, poesia: Prima divisione

Sogno sempre ad una certa
ora del tramonto qualcuno
che viene a sognarmi accanto
un sogno nuovo, di sempre.
Ripete la mia stessa domanda:
se è il tramonto che ci sogna
o forse il sogno del tramonto
cos’è che viene, ad una certa
ora per farci svegliare? È solo
qualcun altro di lato, che tramonta.

Amare un cuore separato
come amando un’unione
di passione a metà; allora
se è stata amata, intera una parte
non vista, non vissuta, più intima
ma esteriore, cos’è ciò che si ama
se non fa distinzione, se non è meta
senza più fine, se non è solo amore?
Chi si ama lo sa, che non è finta
il vero dolore, ma amore di mezzo
alla vita, di ognuno, stando lontano.

//

Sonia Caporossi, poesia: La tua bocca

E la forza icastica che cerco
è nel tuo sorriso

Traduzioni dall’aramaico
delle mie teorie mal pronunciate
scritte in codici incartapecoriti
da attimi d’egolatria

Osservo contemplo attendo
che tu parli del mondo che mi compete
definendomi nel perimetro del cerchio
confinandomi per non morire
imprigionandomi come un vetrino
medico che rinchiude
nelle sue impossibilità il batterio
di ogni probabile male

Non potrei urlare ancora
non potrei alzarmi e fuggire
non potrei rifiutarmi di guardare
l’evidenza criptica del tuo sguardo
terrificante monodia dell’anima

Eco del suono e del senso
là dove affondano le mie labbra
come agnelle spaurite dal coltello del Vate
come due pagine dello stesso libro
che si chiudono per sempre
sulla parola fine.

//

Alessio Di Giulio, poesia: Arcano maggiore

Stelle migranti e mareggianti nebbie
velano gli occhi,
lievi porti sospesi nella sera.

Lenta chiaroveggenza
con le foglie s’irradia la radura
in un volo ramificato di senso

e il bosco danzante
ricuce la frattura
tra il carro gli amanti e la luna.

//

Francesco Iannone, poesia: senza titolo

*
Ti immagino e questo è il mio coraggio
sei in giardino, forse sola,
piegata sulle ginocchia
a stringere patti, alleanze,
come arresa, convocata.

Ti immagino e questo è il mio coraggio
come un ramo che si affaccia oltre il buio
apre foglie come mani
gesti divini di pietà.

Il cielo dorme una pace bianca
dalle costole delle cose adesso nevica.

//

Valerio Nardoni, poesia: Cagliostro

Entro in camera
e per fare il carino l’abbraccio in qualche modo,
mentre stava leggendo.
Faccio un verso strano
poi batto le dita sul tavolo, e dico
«ho imparato a miagolare da Caglio»,
che in effetti è un gatto che fa un suono
di piccione, e quando si alza
per farsi grattare la testa
ricade con un rumore sordo,
perché ha una gamba di ferro
in seguito ad un’operazione.
Penso con stridore che anche il mio
è un nome di passaggio
amorevolmente ricevuto
da un minimo agglomerato di cellule.
Sorrido, come sospeso,
e ci vogliamo bene.

//

Giuseppe Nibali, poesia: senza titolo

Dio mio l’uomo, cattedrale vuota, posto
enorme di entrata di uscita mentre sul muro
l’ulivo schiaccia un ramo e le foglie così alte
dallo schianto, dallo scantu che fa la mano
paterna sopra il petto.
Nella donna-tendone aperta in qualche stazione,
sotto una statua e il cavo enorme della Gonna.

Che cosa pensano le madri nascoste all’Ikea,
lontane magari dalla caduta del figlio,
se il cinno viene lasciato a un passo lì,
dal cemento, dal prato come segno ancora,
ancora di umano dolore.

//

Bernardo Pacini, poesia: senza titolo

*
con un cielo in panne Dio sconta la sua divinità

presentandosi nella nostra assenza
a noi occhi fissi al pane incellofanato
sul tavolo di vimini
assorti nei brividi
di una sera tenuta a bada col polso
strani come volpi a nicchiare sul pasto
ombrosi di colpi senza rumore
– impedito ogni possibile morso
a un orizzonte trafilato a bronzo
che ostina una stizza mangiandosi il sole
senza tramontarlo o tramortirlo
collezionando luce
(e tu dici «che stronzo
che sei, hai rovinato tutto»)

mi protendo nella corsa per afferrare
ciò che ci rende ancora più scaleni

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