[Tratesto]
Il fondamento della scrittura poetica di Luciano Mazziotta, che il recente Posti a sedere (Valigie Rosse, 2019) parrebbe confermare, è una ossessione che trae origine e alimento dal dato visivo. Vale a dire che tale ossessione, prima di sedimentarsi sulla pagina come traduzione verbale (leggi: «ecfrasi»), è l’atto nevrotico di un soggetto che cerca di cristallizzare la realtà nell’istante della visione. Da qui la ricerca – termine che in poesia va scrostato da marcature ideologiche – di una impossibile coincidenza tra percezione sensoriale visiva e relativa ri-produzione linguistica. La parola poetica di Mazziotta soffre dunque quella che potremmo definire una tensione asintotica (e perciò frustrata); un desiderio di precisione, in scala 1:1, verso tutto ciò su cui si posa lo sguardo. Ne consegue che essa può raggiungere il suo fine solo mediante un prezzo altissimo: il congelamento della realtà sensoriale, proprio come in una istantanea fotografica. La complessità e contraddittorietà dell’esistente, di tutto ciò che in senso fenomenologico è caratterizzato dal movimento, viene quindi appaltata a una scansione del verso che segue il principio di una ritmicità ossessiva dagli esiti a volte perturbanti.
In Posti a sedere, ancor più che nel precedente Previsioni e lapsus (2014), Mazziotta si muove dentro il linguaggio, in particolare laddove uno scarto tra suono e significato può minare le fondamenta del patto linguistico tra chi parla e chi ascolta. Non a caso, il leitmotiv che attraversa il libro è una incomunicabilità che a volte, come nella sezione Fanno spazio, sfocia addirittura in un odio reciproco, ma che in linea generale concorre a perimetrare una distanza tra i personaggi, o tra uno di essi – quasi sempre colto nell’atto di guardare – e l’oggetto della sua visione: il palazzo di fronte, un quadro, una foto, un frame cinematografico. La percezione del lettore è che queste figure non riescano a uscire dallo spazio angusto del proprio Io, e che pertanto siano condannate alla reiterazione di un «piano sequenza» (titolo dell’ultima sezione) in cui l’estro surrealista di Buñuel incontra l’esistenzialismo enigmatico di Antonioni.
L’impossibilità della relazione è quindi, in ultimo, la questione cruciale del libro di Mazziotta. Ce ne fornisce un chiaro esempio la triangolazione imperfetta di uno dei primi testi del libro: «tre facce due parlano e l’altra / li osserva. poi quella che osserva / inizia a parlare e l’una che prima / parlava si ferma […]. // come se a turno / l’una o l’altra o quell’altra / dovesse star muta in un angolo. / tre facce due parlano e l’altra / dovesse fare la spia» (p. 12). È evidente che a questo parlare, che a turno esclude un protagonista, manca la dimensione relazionale dell’ascolto disinteressato e aperto verso l’alterità; tant’è vero che mentre le «due facce» impegnate nella locuzione si parlano di sopra, verosimilmente senza ascoltarsi, la terza, estranea, osserva come se «dovesse fare la spia». Ma, siamo autorizzati a chiederci, a chi?
L’ossessione visiva, che nei versi citati lascerebbe intendere una sinistra società della sorveglianza di foucaultiana memoria, esaurisce tutte le possibilità di relazione. Se ci sporgiamo anche noi voyeuristicamente (come siamo chiamati a fare) dentro le scenografie domestiche di Posti a sedere, notiamo che gli abitanti di questi interni sono interlocutori mai definiti, entità estranee: morti incorniciati, non-vivi, intrusi (blatte), abitanti di una realtà limbica indifferente a quella esterna. E quest’ultima, laddove fa la sua irruzione, si presenta spesso in veste metereologica: ad esempio la pioggia che in una poesia «non turba il letargo di chi in questa casa ci vive» come appunto all’interno di «uno spazio mai mondo e poco // esplorato ché si potrebbe aggirare chiunque / chiunque accaderci e niente spostare toccare // fare un rumore di chiavi – durante il letargo / di chi in questa casa ci vive – e riuscire» (p. 17).
Delineata questa scena di fondo, all’io poetico di Mazziotta non resta quindi che collocarsi sulla soglia tra il dentro e un fuori: «da questo punto esatto oltre l’impaccio c’è l’impero della luce» (25). Il discrimine è il momento in cui chi guarda (e descrive minuziosamente ciò che ha davanti) si accorge della rifrazione di questo sguardo sugli altri: «come se fosse / questo per loro esistere esistere a tratti / per l’insonnia degli altri nel palazzo di fronte»; anche se in extremis, come una sorta di abiura, ammette che «quello che accade ci accade di spalle» (ibidem). Il che è come riconoscere che la ragione di ogni evento affonda sempre nel passato, rispetto al quale il «dolore non è tanto la perdita / quanto il disuso» (31) e il senso di una storia si manifesta, come già ricordava Celan, nell’evidenza di «una data» (altro titolo-sezione) trasmessaci in eredità insieme alla rimozione delle sedie, dei “posti a sedere”, «che ci fanno spazio a perdere» (ib.): «eppure una data c’era una data che avremmo allora dovuto / svendere prima che questi poveri figli nascessero / a vivere come futuri pazienti dei nostri analisti / o di quello che ancora sconosce le colpe che abbiamo / raccolto e concesso in eredità» (p. 43).
Su questo tràdere della colpa trova compimento il motivo di una casa – nel senso di Heimat familiare – abbandonata ai segni del passaggio implacabile del tempo. Case museo è infatti la sezione che risolve questa eredità in due luoghi “esterni” (si fa per dire) riconducibili alla geografia palermitana: la Cripta dei Cappuccini e Palazzo Abatellis in cui, ci rivela l’autore in nota, spicca un Trionfo della morte affrescato intorno alla metà del Quattrocento. In modo particolare questo quadro, per l’ovvia corrispondenza tematica, sollecita quella pulsione alla descrizione di cui dicevamo all’inizio a proposito della scrittura di Mazziotta: «e tu continua a descrivere il tutto mancante / come se l’ecfrasi esplicita fosse una colpa. // perché non ci sono bambini e le frecce provengono / dal fuori che è il posto a sedere che abiti. // e forse a scagliarle sei tu» (p. 56).
Ma il tempo dell’ecfrasi, benché prolungato a oltranza per ricavarne il massimo del piacere, coincide con uno «spazio alterato», uno «spazio strettoia» (p. 59) che ha i limiti del «ricordo suddiviso in paragrafi» (p. 58). A seconda del punto di osservazione del soggetto, cioè «del lato da cui si guarda la lente» (p. 59), l’oggetto (il ricordo) può cambiare; e con esso, come ci ha insegnato la fisica quantistica dello scorso secolo, anche colui che guarda. Il Piano sequenza, dispiegando le potenzialità dell’«immagine-movimento» (Deleuze), potrebbe allora dare scacco matto all’ansia dello Stillstand del poeta, se non fosse che anche questa modalità di rappresentazione si presta a divenire «un buon soggetto per una fotografia. / un cinema vuoto ripreso dallo schermo // illuminato» (p. 67).
La “fissazione” a cui anela Mazziotta, ormai lo abbiamo capito, è il «posto» dove la traccia umana si oggettiva al punto da dissolversi, come nel correlativo del cinema vuoto: «ché questo spazio esiste anche in assenza nostra. noi / dormivamo in quel frangente in tempi distaccati» (p. 72); «appena si ferma fotografalo. / appena si gira sparisci. // dopo lo scatto spariamo dove quel volto / dimentica di essere stato» (76). Oppure, in una interpretazione (è il caso di aggiungere “ecfrastica”?) di un quadro di Goya, «l’attesa tra i due tra l’uomo che pensa e l’oggetto / che illumina» è risolta tramite un espediente spettacolare: «y se le quema la casa» (p. 74). Scavando tra macerie e ceneri, rimane il fotogramma dell’ultimo ramo, reciso nel punto in cui dovrebbero gemmare i fiori, di «un albero genealogico dopo la porta antincendio»: «un uomo / che si riguarda il passato e sfumando si sporge» (p. 75). E raggela il momento della caduta.
questo è un buon soggetto per una fotografia.
un albero genealogico dopo la porta antincendio.
vedi. è un albero genealogico (non un albero
secolare magnolia magari rimando a un giardino a una piazza
a palermo e si ricavano in mezzo cunicoli
tane di topi da lì ai sotterranei con scritte murarie:
martiri e condanne – curiosi senza pietà
per i modi di scrivere in codice aiuto.)
è un albero genealogico dai rami sterili
mozzati all’altezza del fiore e non gemmano
sembrano attorcersi come cordone nel collo di un neonato
non oltre e restano appesi tra il tronco e lo scorcio
impreciso: un cielo palazzo prigione un uomo
che si riguarda il passato e sfumando si sporge.