#1Libroin5W
CHI?
Domanda difficile perché, se rispondessi secondo il mio intento narrativo, svelerei la trama. Cercherò di rispondere senza violare il mistero. I protagonisti sono l’“appuntata” Maria Lo Faro e il vicequestore Anastasio Ventura, quest’ultimo sulla soglia della pensione. Insieme, indagano su una storia che, a poco a poco, rivela altri due personaggi, ancora una volta un uomo e una donna, che sono altrettanto importanti all’interno dell’economia del romanzo. Ma protagonista è anche l’isola dove si svolge la vicenda e dove si trova il commissariato, la gente che ci vive, e tra questi, in particolare, alcuni personaggi che cercano di spiegare la cultura della loro terra al Vicequestore, forestiero e solitario, protagonisti sono i poliziotti che popolano il commissariato.
COSA?
Il romanzo è ambientato in un isolotto vulcanico sperso in mezzo al mare, lontano dalla terraferma, una metafora sulla mia terra, che cerco di raccontare, al di là di tutti gli stereotipi che ancora la circondano e la offendono. In fondo, il giallo italiano è proprio questo: ci si serve del genere per raccontare altro. È una metafora sulla vita, perché è apollineo e dionisiaco allo stesso tempo: si ride, come nelle commedie hollywoodiane degli anni ‘50 (pensiamo alla coppia, non solo cinematografica, Spencer Tracy/Katherine Hepburn) nella continua sticomitia che nasce dalla dialettica di genere ( il mio film preferito, al riguardo, è “Bringing up, baby”, in italiano “Susanna” uscito nel 1949 e diretto da un Howard Hawks diverso e in stato di grazia), una dialettica permanente che non riesce mai a raggiungere la sintesi. Ma c’è anche un lato oscuro, una storia fatta di tenebre che si dovrà arrivare alla fine per riuscire a dipanarla, anche se, nella terra di Pirandello, non c’è mai una sola verità. E ho voluto parlare della polizia, come l’ho vissuta io nei miei 35 anni di servizio, perché quella che leggevo negli altri libri non le assomigliava per niente: molti personaggi, che ho costruito e ricreato, e molte situazioni narrate, per quanto prima facie paradossali, prendono spunto dalla mia esperienza professionale. E, last but not least, si parla d’amore, come in tutti i romanzi, anche se, spesso, in modo non esplicito e quasi sempre negato.
QUANDO?
A essere sinceri, non nasce come un giallo. Avevo in mente di scrivere un testo teatrale, il teatro è sempre stata la mia passione, come il cinema. Mi inorgoglisco quando qualcuno mi dice che la mia scrittura è cinematografica, che faccio vedere le parole. Il testo era costituito dal dialogo di due personaggi, un uomo e una donna, che si incontrano dopo lungo tempo e, lentamente, affrontandosi secondo un climax sempre più duro e feroce, scoprono la loro storia, che, però, ognuno racconta a modo suo, come nel capolavoro di Akira Kurosawa, Rashomon, riproposto, in chiave western, ne “L’Oltraggio” da Martin Ritt. Poi, ho pensato che ci dovesse essere anche una figura super partes, qualcuno che, chiamato a giudicare, desse la soluzione, o, magari, un’altra versione dei fatti. Come ne “La pista cifrata” de “La settimana enigmistica”, in cui unisci i puntini numerati e, alla fine, appare la figura. Feci leggere quello che avevo scritto a un mio carissimo amico, il professore Silvano Faro, morto all’improvviso il 10 aprile 2017. Silvano era una persona rara, dal cuore nobile e dai modi delicati ed eleganti, colto e umile allo stesso tempo, come dovrebbe essere un vero intellettuale. Mi disse di cominciare dalla fine, che si era divertito nel leggere la seconda parte. Dapprincipio protestai, volevo scrivere un testo teatrale, avevo in mente già la scenografia e sognavo che venisse messo in scena. Ma poi seguii il suo consiglio. Non lo ha mai letto finito, però. Ecco perché il romanzo è dedicato a lui.
DOVE?
La narrazione è cresciuta in modo torrenziale: mi sedevo davanti al computer e scrivevo, quando il lavoro me lo permetteva, i pomeriggi e le mattine dei week end, in cui ero libera dal servizio. Nel frattempo, era uscito “Malanotte”, una raccolta di racconti brevi, e io andavo in giro a presentarlo, anche in Germania, perché sono stati tradotti in tedesco. Scrivevo pure in aereo, ovunque mi capitasse, anche sui libri che mi portavo dietro da leggere. Lo faccio ancora: i miei libri contengono pezzi di poesie o, in genere, di quello che sto scrivendo nel momento in cui li leggo, come, ad esempio, un testo teatrale che ho finito di scrivere la scorsa estate e il romanzo che è in corso d’opera.
PERCHÈ?
Rispondo citando quello che lessi, qualche mese fa, su un saggio del premio Nobel per la medicina Eric R. Kandel dal titolo “Arte e neuroscienze”. Nel 1896 Monet cominciò a soffrire di cataratta e, proprio in quel periodo, il grande impressionista dipinse ben duecentocinquanta dipinti, tutti raffiguranti le sue famose ninfee. Lo stesso Monet, che morì pluriottuagenario, nel 1923 scrisse a un amico: “La mia povera vista mi fa vedere tutto in una nebbia completa. È molto bello lo stesso.” Kandel commenta così: “Queste opere, davvero notevoli, sono colme di ambiguità e bellezza”. Al riguardo, non molto tempo fa, lessi un altro saggio illuminante sull’argomento e cioè “Proust era un neuroscienziato” di Jonah Lehrer. Questa volta sono i dipinti di Cezanne ad essere oggetto di studio: il libro riporta il parere dello storico dell’arte Meyer Schapiro, che scrive: “è come se non vi fosse un oggetto indipendente, chiuso, preesistente, offerto all’occhio del pittore perché lo raffiguri, ma solo una molteplicità di sensazioni indagate con successo”. Qual è la morale? conclude Lehrer: “Che la mente non è una macchina fotografica. Come aveva capito Cezanne vedere è immaginare. Ognuno di noi è ostaggio della propria visione. … Il fatto scioccante è che la visione è come l’arte. Ciò che vediamo non è reale… noi interpretiamo le nostre sensazioni.” Bene, per me questo vale anche per ciò che leggiamo. La mia scrittura è volutamente “aperta”, cerca un’interlocuzione, una partecipazione attiva del lettore, non lo conduce lungo un percorso prêt-à-porter, ma gli propone un viaggio e gli chiede di scegliere la strada. Come nelle ninfee di Monet o nei paesaggi tracciati dal pennello materico di Cezanne, ognuno di noi vede (legge) ciò che è, e cioè il suo sintagma identitario. “Non rompere niente” è stato definito “un giallo alla rovescia”: si deve arrivare fino alla fine per trovarci il delitto ma, come nella vita, quello che accade non ha mai una sola verità. Lo avevano capito i tragici greci facendo intervenire alla fine il deus ex machina, l’elemento risolutore di una trama senza via d’uscita. In “Non rompere niente”, invece, si rompe tutto e neanche un Dio riuscirebbe a incollarne i pezzi.