[Tratesto]
Nelle sue migliori espressioni la poesia italiana in dialetto scaturisce da un ‘amore difficile’, come direbbe Calvino, tra necessità dell’epos e disposizione all’elegia. Connubio, questo, che certo non si costruisce a tavolino e che non è ricercato preventivamente come finalità artistico-estetica dall’autore. Se in questi ultimi anni, nonostante gli anatemi e le profezie apocalittiche della neoavanguardia, si sta assistendo a una rifioritura della scrittura in dialetto, ciò è dovuto forse al fatto che la lingua nazionale, schiacciata nell’immediatezza della comunicazione, è percepita sempre di più come una realtà dissanguata e agonizzante. Il ricorso al dialetto (che non vuole essere un rifugio) può essere inteso allora come l’ultima sponda di una ricerca espressiva che non ha mai smesso di riconoscere nell’urgenza e nella centralità della parola il luogo aperto al senso nonché agli ineludibili processi della Storia.
Osservando in presa diretta questo fenomeno da un’area circoscritta geograficamente e linguisticamente, ci limiteremo quindi a considerare il caso specifico e ‘anomalo’ della Sicilia, terra che da I Malavoglia ai giorni nostri è diventata per antonomasia lo spazio in cui le istanze della modernità e le resistenze della tradizione convivono e confliggono allo stesso tempo; una terra cioè in cui la dialettica passato-futuro si risolve abitualmente in una nevrosi che paralizza il presente. La poesia di Nino De Vita, per citare un esempio autorevole, è da sempre orientata a mettere in scena questa frattura, questo iato tra il vecchio e il nuovo, con una disposizione elegiaca che trova nel dialetto di Cutusio, la contrada di Marsala che il poeta ha portato alla ribalta nel corso degli anni, un codice espressivo funzionale al recupero della memoria.
Nel suo ultimo libro, Tiatru (Mesogea, 2019), ulteriore tassello di un opus in fieri concepito come il progetto di una vita, cioè un’Opera che scandisce il percorso di un’esistenza storica, De Vita, dietro la “maschera” di uno dei tanti personaggi che qui prendono la parola per dialogare con l’io poetante, palesa le ragioni da cui scaturisce la sua poesia. Tali ragioni si potrebbero definire ‘archeologiche’, ovvero che volgono al recupero nonché alla salvaguardia di un principio linguistico minacciato dall’oblio della modernità. C’è un testo in particolare, Bberengariu, collocato strategicamente in chiusura della raccolta, in cui quanto abbiamo appena detto emerge nitidamente: «Acchiànanu i palori / cosi chi su’ nno trùbbulu. / ’Un sunnu addibbiluti, / strasannati, attassati; ’un si sfannu / nno postu runni stannu / sarvati, ’un s’ammalìgnanu» (Portano le parole / fatti che sono nell’oblio. / Non sono infiacchite, / abbandonate, intorpidite; non si guastano / nel posto dove stanno / conservate, non si prendono di male). La tragedia di questo personaggio, Berengario, è quella di chi chiede amore, un amore di carne e di tenerezza («pi mmia cci voli amuri, / manu chi m’accarìzzanu, / ’i taliati cci vonnu / chi cci hannu l’occhi quannu / spìnnanu…»: per me ci vuole amore, / mani che mi accarezzano, / gli sguardi ci vogliono / che hanno gli occhi quando / desiderano…), poiché la sua vita è una solitudine resa ancora più profonda da una folla di parole: «un omu / è fattu ri paroli». È questa infatti la lezione che egli impartisce al tu dialogante, Nino, invitandolo ad annotare su un taccuino queste parole; tutte le parole di cui è composta la vita di un uomo. Davanti al fiume in piena di una siffatta solitudine che non riesce a contemplare nessuna possibilità di riscatto o di consolazione, l’io poetico, con il suo quaderno, rimane in un silenzio rispettoso e umile fino al termine del lungo monologo di Berengario, salvo trovare infine l’arditezza di prendere la parola per sigillare la compiuta formazione poetica: «E ppuuru m’abbisògnanu, / o Berengariu, i fatti, / cci rissi» (E pure mi bisognano, / o Berengario, i fatti, / gli dissi).
Stabilito che l’arché è la parola riconducibile a un fatto, a un evento, una parola tesa a costruire relazioni e perciò ‘performativa’, viene a delinearsi più chiaramente il senso dell’impianto teatrale della poesia di De Vita, il quale non dovrà essere cercato necessariamente in quei tratti in cui essa si avvicina alla mimesis della “commedia umana”, quanto piuttosto nel fatto che la parola dei personaggi, proprio perché in dialogo, diventa corpo e azione: teatro non come specchio della realtà ma per intrinseca vocazione.
Muovendo da questo presupposto, quel rapporto tra epica ed elegia di cui si diceva all’inizio, cioè tra valori storici universalmente riconosciuti da una collettività e rimpianto nostalgico di tali valori, nel Tiatru di De Vita si assesta in un equilibrio sapiente che ha al suo centro la memoria. Il poeta, il cantore, il teatrante è colui che detiene questa memoria e quindi, in virtù di ciò, si arroga il diritto-potere del racconto. Lo sa bene De Vita che fa dire a un altro personaggio, Sulidea, incarnazione di Shahrazād sulle coordinate di Cutusio: «Cci nn’è, / quantu cci nn’èsti stori / a Cutusìu chi ggheu / canusciu» (Ce n’è, / quante ce ne sono storie / a Cutusio che io / conosco). L’avversario da battere, ancora una volta, è l’oblio, cioè la morte.
Eu sacciu comu èttanu ’i palori.
Aiutàtimi cci ricu
a rricurdari, un omu
è fattu ri palori.
Cci sunu chiddi manzi, ’i riscursivi,
’i spiliusi, ti rìcinu
favurisci; e cci su’
’i manischi, ’i maramma, l’abbramati:
ti cercanu pi ffàriti nfuscari,
straviàriti, appagnàri…
’A palora è lanzata,
vuccaranni, spacciata,
è spirugghiafacenni, è mpirugghiusa,
pagghiazza, allannunata,
s’annaca, si nni va
filiusa a cusciuliari,
si posa nno ’na zzotta
ccu ll’acqua e sta, ri ddà
talia; si ti cci abbucchi
ti rici cc’è ’a to’ facci
cu mmia.
Io so come gettano le parole. / Aiutatemi chiedo / a ricordare, un uomo / è fatto di parole. / Ci sono quelle miti, le sagge, / le sospirose, ti dicono / lo puoi fare, ricorda; e ci sono / quelle manesche, le apatiche, le avide: / ti cercano per confonderti, sviarti, allarmarti… // La parola è stomachevole, / vanitosa, sfrontata, / è traffichina, è contorta, / dissennata, solitaria, / si trastulla, se ne va / bizzosa a girovagare, / si posa in una fossa / con l’acqua e sta, di lì / guarda; se ti ci sporgi / ti dice ho la tua faccia / con me.
in copertina Nino De Vita nella foto di Dino Ignani