«Tutto nel mondo è piccolissimo/ cade in terra come i bambini/ ti guarda con occhi impietriti/ un secondo prima di piangere./ Allargo le braccia/ come una madre o come una croce». Versi emblematici scelti per introdurre la lettura del libro “La quasi notte” di Francesca Serragnoli (pubblicati da “MC edizioni”, in “Gli insetti”, collana diretta da Pasquale Di Palmo). Versi “verticali”, per usare la calzante definizione di Fulvia Toscano, che discendono «all’altezza della vita», oltre «il cigolio della carne», oltre «il ghiaccio del viso». Versi che provano l’illimitatezza di un testo poetico sincronico all’essenziale, «ogni volto è un tempio di reliquie». Versi disposti all’ascolto che accordano “preghiere laiche” su traiettorie di significati, «per rimanere e andare/ nello stesso identico scatto».
La tua poesia è (anche) la lingua del ricordo, del silenzio, dell’altrove, dell’invisibile. In che modo la (tua) vita diventa linguaggio?
Mi viene in mente un libro, a mio parere, bellissimo “Il significato della musica” di Schneider, libro complesso, impossibile da sintetizzare in maniera adeguata, soprattutto da me. Tuttavia mi sento di riprenderne l’idea originale, cioè la concezione della parola come suono dalla quale, secondo antiche tradizioni etniche e religiose, ha avuto origine l’universo, la vita. Quindi potrei ribaltare la domanda chiedendomi: in che modo la lingua diventa vita? Cosa avviene quando vengono pronunciate le parole, il loro misterioso suono? Una delle relazioni più attraenti e misteriose della lingua è quella fra il suono e la cosa designata. Quando nominiamo la realtà essa risuona, viene ridestata ancor prima dei nessi logici, attraverso i quali colleghiamo le parole. Il suono è di più della cosa designata, va oltre. L’unica poesia dell’invisibile forse può essere attribuita allo sconfinamento della parola come suono. Ma oggi più che mai siamo strattonati dalla logica, il significato, la gabbia di un senso razionale.
Le mie prime prove di scrittura e molte altre successive avevano la caratteristica di essere poco chiare. Qualcuno parlò di surrealismo. Mi sentivo a cavallo di una schizofrenia, fra il flusso inconscio e le briglie logiche, come se fossi costretta, di volta in volta, a scegliere la direzione dei lavori. Poi incontrai Maritain e trovai un po’ di pace e libertà.
Teorie suggestive a parte e senza pretendere di avere trovato una mia teoria o consapevolezza sulla scrittura, io penso il linguaggio, desidero vivere il linguaggio, il testo che leggo, come se avvenisse in quel momento qualcosa, come un tentativo di rito, vuoi con l’accostamento misterioso di qualche suono che ne richiama un altro, vuoi con immagini che ne richiamano altre, come dentro scatole cinesi.
La vibrazione che vorrei sentire è una parola ventosa, un confine fra la vita e la morte, fra il tempo e l’eternità. Shneider parlerebbe di ritmo primordiale che permette di toccare una statua nel buio. La spiegazione è sempre meno chiara di un fatto poetico. Ogni testo dovrebbe portare a un confine, a un movimento, a un panorama molto più vasto della povera immagine. Ciò non significa eliminare la materia, ma vivificarne il segno attraverso il soffio ventoso della sua pronuncia. Non è una tensione al possesso dell’invisibile, né tantomeno al segreto meccanismo della natura, alla formula (la poesia non tende a questo), ma il desiderio di sentirsi in armonia con il movimento di tutto, circolare, lineare, non è facile districarsi fra ciò che abbiamo imparato dai libri e ciò che ci è concesso conoscere nell’esperienza. La figura a cui mi piace paragonare lo scrittore di versi è il portinaio di un grande castello che passa la vita a lucidare la porta e a salutare chi entra e chi esce dal suo cuore con un grido animale.
Ma la poesia è anche il non sentirsi in armonia, come scrive Ungaretti.
Ecco quindi preferirei che la vita non si cristallizzasse nel linguaggio, ma che il linguaggio si sciogliesse davanti alla vita fino a diventare tonalità d’altro, rantolo. Si inizia non sapendo cosa dire e si finisce non sapendo cosa dire. Vorrei ora citare qualcuno di cui non ricordo il nome e neppure il libro, forse Berdjaev. In ogni caso si tratta della relazione fra la carne e la parola, fra la vita e il linguaggio. Una poesia è una principessa addormentata nella sua eternità e rivive se il “lettore” la bacia o è il linguaggio poetico che bacia il lettore addormentato e lo fa rivivere? Come dice la Sedakova, ci sono cose, in certe poesie, dove il confine fra la vita e la morte non esiste. Solo la speranza (la bambina piccina di Peguy) può liberamente e con leggerezza girare giocando avanti e indietro, senza accorgersene. La speranza figlia della fiducia.
Qual è o quale dovrebbe essere la lingua ideale della poesia, la forma quanto incide sull’essenzialità e sull’espressività della parola poetica?
La forma è tutto quando diventa impercettibile, quando il cocktail ha solo sapore, quando non ci si ferma alla forma ma la si oltrepassa, forse quando diventa un pezzo di una musica da attraversare. Proprio perché le cose di cui si parla sono di più della loro materialità, proprio perché hanno un contorno sfumato, dà piacere toccarne il confine. La poesia va di confine in confine. Se va al di là, come direbbe Maritain, pecca di angelismo, di spiritualismo didascalico. Non credo esista una lingua ideale, almeno dal punto di vista della tecnica. Ogni poesia è sempre un buio e si va a tentoni finché la parola si cristallizza nella carne, ma non del tutto. Ma guai ad appoggiarsi come fosse una stampella, tutto è sempre sospeso e genera, a Dio piacendo, un dialogo con qualcuno al quale si dà la parola successiva che può essere solo gesto silenzioso, movimento interiore, sobbalzo. Ma forse c’è un’immagine della lingua ideale, quella che incanta e che ci fa dondolare come i cobra.
Immagina di dover dare ai più giovani delle “istruzioni” essenziali per scrivere una poesia, quali daresti?
Per fortuna è solo qui, in questa intervista, perché mi sentirei molto imbarazzata. Direi di leggere ciò che sostiene la vita, di formarsi una propria visione o pensiero sulla realtà, di trovare degli amici, vivi o morti non importa, ai quali rivolgersi. La poesia è un’arte pericolosa e non ci si salva su una zattera. È un viaggio che affonda in un abisso e ha bisogno di luce non propria per resistere. Non è una considerazione religiosa, ognuno scelga ciò che crede possa sostenere la vita sia scrivendo che non, ma la prima regola e non vedere nella poesia un idolo o una piccola divinità o una triste stampella. Si cade e ci si fa molto male. Ciò non significa che bisogna studiare una teoria e riproporla andando a capo. È la differenza fra la poesia di oggi, del frammento e la grande struttura di Dante. I versi di Dante non hanno perso la loro forza sorgiva perché sottoposti a un rigido schema pre-esistente, anzi hanno trovato la loro libertà. Questa certezza ha permesso a tutto di partecipare. La poesia non è né teologia, né filosofia (solo per citare alcune fonti autorevoli) e non salva la vita, pertanto ha bisogno di tutto ciò che permette a un uomo di attraversarla. Banalmente un maestro che sta con te anche se non scrivi nulla o se scrivi brutti versi. La vera Gloria, per citare il titolo un libro di una cara amica Marina Sangiorgi che non è più fra noi, è l’essere riconosciuti, chiamati per nome, non dai palcoscenici, ma da chi ti sta vicino e possibilmente ti ha voluto bene o ti vuole bene. È una gloria difficile anche questa, ma è l’unica. Tralascio il discorso sul bene e sul male, sulla moralità nella poesia, perché oggi sembra che la poesia, l’arte in generale, sia vaccinata da questo arcaico problema.
La poesia è tale se diventa portatrice di una visione oltreché individuale sovraindividuale? Qual è, per coloro che si stanno avvicinando alla tua poesia, la sua opinione in merito?
Come ho accennato prima, la poesia non è una filosofia. Sarebbe improprio usare la poesia per spiegare una visione della vita, occorrerebbe più spazio e più annotazioni. Neppure il romanzo talvolta è chiaro rispetto alla visione dell’autore. Sulla questione personale-universale o sovraindividuale mi sento di credere che la poesia non sia mai una proposta di visione del mondo nel senso che, attraverso un testo o l’altro, si vorrebbe spingere il lettore a pensarla uguale o a proporre una religione o una filosofia di vita. Quando si legge Dante non si ha mai l’impressione di essere indottrinati. La chiarezza di un testo non è mai chiarezza dottrinale. E qui mi ricollego a ciò di cui ha parlato Maritain nei suoi scritti di estetica. L’autore non è necessario neppure che sia coerente con una visione del mondo nella sua poesia, o meglio, che non lo sia volontariamente. Lo schema entro il quale Dante ha scritto la Divina Commedia a noi risulta essere uno schema, per lui era probabilmente la realtà temporale ed eterna che lo circondava. Tutto questo per dire che è necessario puntare alto nella vita, cercare un maestro o i maestri per avere chiarezza per cercare risposte alle molte domande che la vita ci pone, ma nella poesia la visione entra indipendentemente dalla volontà dell’autore di “pubblicizzare” il suo credo o la sua politica o la sua filosofia. Sempre Dante mi aiuta a rispondere: proprio perché la sua poesia è stata la sua speciale esperienza ultramondana è possibile per tutti. Se avesse sorvolato sulla sua particolare elezione a varcare i confini del mondo, sarebbe stato meno credibile. Non si tratta quindi di una persona speciale, da invidiare e impossibile da imitare. La mia vita è l’unica credibile. Dare credito alla propria vita, forse permette agli altri di dare credito alla loro. Tant’è vero che, anche se non è facile ammetterlo, l’unico lettore talvolta è solo chi scrive. E chi scrive si annoia assai a riascoltare quello che pensa.
Qual è stato, ad oggi, il dono più prezioso ricevuto in dono dalla poesia?
Non è facile rispondere. Forse l’aver dato una direzione alla vita dentro un intermittente risveglio. La poesia mi tiene desta. Solleva di me ciò che muore continuamente. Tiene insieme la speranza dentro alla disperazione. Toglie talvolta la ganascia del tempo, la sua innominabile pesantezza. Non permette di lasciarsi vivere, di dimenticarsi di sé. Quando non viene, è forse, come direbbe Cristina Campo, una mancanza di attenzione. Nella sterminata solitudine, che non si se sia un dono o una maledizione, permette che qualcuno ti rivolga la parola. La parola “dono” è tutto. È un dono scriverla, è un dono leggerla. È la possibilità di vivere la logica del gratuito, una piccola nicchia di paradiso.
Per Emily Dickinson la poesia “distilla/ un senso sorprendente da ordinari/ significati”, per Francesca Serragnoli?
Che stridore che sento in questo accostamento con la grande poetessa… Certo che sono d’accordo! Aggiungerei che il senso arriva dopo, come un liquore ed è sorprendente solo il fatto che ci sia quel di più che non è altro che la bellezza. Se dovessimo riassumere il mondo con un vocabolario dove le parole, che hanno vocazione di esondare in mille sfumature, sono schiave di se stesse, narcotizzate, ci sentiremmo in una gabbia. Basterebbe talvolta pronunciare il nostro nome per sentire incidere un abisso, o risorgere.
Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una tua poesia dal libro “La quasi notte” – (ti chiedo gentilmente di riportala) – e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.
Riporto la prima poesia. È nata proprio nella finestra di casa mia, dei miei di quando ero piccola e guardavo. Guardavo la strada vuota, cercavo qualcosa o qualcuno apparire. Forse da quella mancanza, dal non avere nulla a cui appoggiare lo sguardo, da quel niente che è sgorgata piano piano tutta la mia scrittura. Non essere appesi a niente, sospesi nel vuoto con la faccia ancora infantile, rimanere lì per sempre pensando anche alla morte. Scrivere è spesso entrare e uscire dalla morte, certo immaginata, ma non meno potente.
Poi non so perché è venuta scritta così, alla poesia si dà la prima nota, dopo è lei che cerca, come un cane, le sue pareti, e i suoi promettenti odori, cercando in ogni verso di dire tutto, cercando sempre il centro attorno al quale ruota, anche se inconsapevolmente, la propria vita.
Quando ero bambina
aprivo la finestra
sporgevo
volevo essere la rosa di qualcuno.
Nell’incavo dell’occhio l’acqua
intingi il dito, dicevano
portalo alla fronte
il triciclo della croce.
Un giorno da questa finestra
cadrà la mia vita
un tonfo lieve di palpebre
la bocca aperta
come alla prima comunione.
(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 19.09.2021, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).