le cose libere escono dalle fessure

Luna
mi guardi
– starnutisco la tua mancanza sui tasti, tra le dita –
inarrivabile dai miei satelliti senza spinta
dimmi dove andremo
– mi manchi o non mi manchi? mi silenzi o mi amplifichi
dallo schermo del Samsung che non si fa abbracciare? –
disidratati d’amore
frustandoci a vicenda con le nostre code
di sirene e tritoni
assecondando questa danza muta
– le anime finite per sbaglio sul Tapis roulant della vita
condannate a correre per bruciare il veleno –
Luna
precipita su di noi
con la tua sottile pioggia di luce
dissotteraci il cuore
per favore
e il cordone ombelicale da questi abissi
di terra
riattaccaci dalla pancia
trasportaci nei tuoi sentieri di polsi
brocche e ginocchia
e dacci un nome nuovo
come fosse a prima volta che ci vediamo
– il tempo è relativo, dicesti, e io disegno
una rete concava con le mani –

E tu ridi a occhi bassi
– perché gli occhi che ridono sono nudi –
e sputi acqua dal naso
come certe statue dagli occhi
– allergiche fontane che piangono in mezzo
alla piazza, stanche le gambe allargate sulla stoffa bianca –
mentre mi guardi e precipito
in questa foto non ancora scattata.

So tante cose di te
anche se parlavi poco
era più facile parlare coi gatti
o coi rami di pesco
A volte vado in bosco
e mi fondo col sentiero
tengo gli occhi a terra
per i funghi e le vipere
le margherite mi commuovono
e i pini caduti
gli uccelli giù dai nidi
coi ricordi di piuma
Copiavo la tua andatura
per sembrare forte ai tuoi occhi
facevo il maschiaccio
per farmi accettare da te
E avanzavamo insieme
dentro il bosco che urlava
una cosa semplice
come il mattino che apre
e io
né maschio né femmina
ero come un altro albero
ancorata alla terra
solo che mi muovevo.

A meno di un chilometro da me
le ossa di mio padre comunicano
di notte
con la terra del mio giardino.
Il nespolo lo sa
e anche il fico
dicono facciano grandi chiaccherate
con le zolle
con i semi
E molti silenzi
come tra amici.

Quando tornerai
il mio fiume sarà in piena
allagherà i campi arati
i sentieri di ortiche
le spighe d’oro
il coro delle cicale ti entrerà nelle orecchie
i casolari abbandonati franeranno
sotto il peso del sole
e l’acqua ti passerà vicino
la vedrai inondare le formiche
riempire le crepe della terra
passeggiarti sulle scarpe di tela
e arriverà la sera
i rivoli azzurri si faranno neri
i sentieri torneranno alle volpi
e tu sentirai i colpi dentro un petto che non è il tuo
Penserai ai morti
a tutto fuorché a me penserai
e a quel giorno che ti camminavo accanto
il mio passo stanco
il mio colletto bianco
il tuo polso glabro
la bottiglia vuota
in mano a ciondolare
e il parlare di morire
che di vita è più difficile parlare.

Freme la terra
le cose libere escono dalle fessure
si spingono
cozzano insieme
come la gente quando scende dal tram
Le cose libere sono libere
ma piangono
perché vogliono essere chiamate per nome
ma se glielo dai non saranno più libere
le chiami per nome e si fermano
ruotano la loro testa di Pongo
verso di te e le sbarre
poi dicono
Fammi entrare.

Vorrei dirti
che amare lo so fare
ma a modo mio
Vorrei dirti di farmi entrare
nelle tue pause di grillo impaurito
che smette di cantare per non essere preso
e messo a morire come una lucciola
sotto il bicchiere.

Se ci fossimo baciati
saprei che sapore ha
il tuo fantasma di gelatina
e tu sapresti di me
finalmente
le cose che vuoi sapere
Se almeno avessi sentito
il grido del gabbiano che hai
dentro
lo riconoscerei tra milioni
come un pullo tra le discariche
invece
con il tuo casco anti-uomo
– anti-me –
cammini su Marte
scalzo
pietre rosse e aguzze
a ricordarti che sei carne viva
e io
calciata a distanza
dal tuo dolore
galleggio
orbito nel vuoto
turbino
tra pianeti ostili
mai visti.

Mi stupisco
a volte
di piccole cose
come l’accoppiarsi delle mosche
sul libro di Gandhi
e sopra il Buddha di gesso
blu
E adoro gli esseri viventi
– tipo la cavalletta di oggi
con le ali azzurre –
che diventano belli
quando si mettono in volo.

Il non amore è un mostro
ti dà la caccia in ogni angolo
della stanza
anche quando gli angoli
sono pieni di cose
e le ombre ti offrono il loro mantello
ma è sempre troppo corto
e ti lascia scoperti i piedi
così lui ti chiama per nome
un nome diverso
ma tu sai che è quello

Quando il non amore chiama
tutto il mondo là fuori si ferma
e diventa
solo un grande orecchio
che ascolta
senza rispondere.

 

 

in copertina Paesaggio di gennaio, 1962, Tristram Hillier

Potrebbero interessarti