Domani (13 marzo), alle ore 18, presso i locali del Camplus d’Aragona (via Ventimiglia 184) Gian Mario Villalta sarà ospite del laboratorio Le parole della poesia promosso dal Centro di Poesia Contemporanea di Catania (CPCC) in collaborazione con il Dipartimento di Studi Umanistici di Catania. Villalta è poeta, scrittore e critico molto apprezzato nel panorama letterario italiano. Tra i suoi lavori critici ricordiamo gli studi che ha dedicato all’opera di Zanzotto di cui, insieme a Stefano Dal Bianco, ha curato il Meridiano per Mondadori (1999). Vanità della mente (Mondadori, 2011) è invece l’ultima fatica poetica di Villalta. Dal 2002 è direttore artistico di Pordenonelegge e dal 2013 è presidente di giuria del Premio Castello di Villalta Poesia.
A Gian Mario Villalta abbiamo chiesto del suo “laboratorio” di poeta prendendo spunto dalla parola-chiave che ha scelto per introdurre l’incontro del CPCC: buio.
Il lemma da lei scelto per l’incontro del laboratorio è buio, una parola che ricorre spesso, anche nella variante dialettale scuro, nella sua ultima opera poetica, Vanità della mente. In che modo questo buio incide nella sua scrittura?
Possiamo già aprire, con questa sua prima domanda, la prima porta della poesia, quella che fa diventare poeti e amare l’atto poetico di per sé, ovvero la meraviglia della lingua. Mirabile è infatti la parola buio. Se volessimo solo per un momento abbandonarci all’assaporarla, vedremo che, circondata di oscurità (la “u” e la “o”), c’è nella parola buio una luminosa “i”. Il buio è un’oscurità lucente, quindi, che irraggia i contorni o forse l’anima delle cose. Mentre altra cosa è scuro, che è dialettale ma anche no: “si fa scuro il cielo” si può dire in italiano e, stringendo, diventa “si fa scuro”. Ora, se vogliamo accostarci a una poesia cupa (cupo sì che è scuro!) come Fuga di Morte di Paul Celan, mi viene da pensare che è meglio tradurre con “scuro” invece che con buio, la parola Dunkel, che nel contesto vuol dire “col buio” (della notte). Se usciamo dall’ambito di questo fantasticare con le parole e assaporarne la polpa, c’è anche il dato del significato, o meglio del senso: c’è sostanza nelle ombre, a volte più profonda di quella evidente nella luce.
Una sezione del libro, Revoltà, accoglie testi dialettali in una «variante del trevigiano rustico», come precisa nella nota. C’è qualche correlazione tra l’uso del dialetto, comunemente inteso come lingua madre, e il buio come imago ancestrale delle origini?
Sì, in parte è così. Per me il dialetto è sempre stato il discorso – che avevo dentro di me – con il quale ha avuto evidenza, e direi ha “preso corpo”, una polarità, una tensione, che fuori di me riguardava l’appartenenza originaria a un mondo ancora arcaico e il rapido evolversi del cosiddetto progresso. Intendo dire che l’infanzia ha messo radici in un mondo di forze ancora in parte magiche e di presenza imponente dei fenomeni naturali, che poi si sono andate a scontrare non solo con il loro contrario razionalistico e tecnologico, ma con il loro rovesciamento in “valore” del mondo di ieri (la campagna, la genuinità etc.). Un salto mortale di significati e di ideologia, che portano dall’essere immersi nel mondo arcaico al trovarselo pubblicizzato con la stessa logica del telefonino o dell’ultimo modello di auto. Una tensione, quindi, a volte lacerante; e però anche a volte il recupero di forze “oscure”, provenienti da quel puntino luminoso che c’è e resta dal buio dell’infanzia.
C’è un’altra immagine ricorrente nella sua poesia, quella di una casa «quasi finita» che «sarebbe rimasta così per sempre» (La casa vecchia). Questa metafora dell’incompiuto, dell’impossibilità di giungere a una fine, può estendersi alla sua idea di poesia?
Mi sembra che si possa estendere a molta parte dell’orizzonte del vivere attuale, se intendiamo per compimento, cioè il compiuto, come un processo unitario di una forma nel tempo. Le nostre stesse vite sono progetti che si modificano nel tempo. Forse è sempre stato così. Però oggi ce ne rendiamo conto, a tal punto che diventa un problema: la nostra vita ci appare troppo “liquida”, per usare la fortunata definizione di Zigmunt Bauman, le nostre identità troppo labili. Allo stesso modo – accolgo il suo spunto – la poesia non può aspirare che a un compimento nell’incompiuto, o forse, con un gioco di parole, a diventare solo componimento, come è sempre stata, vale a dire un modo di ultimare una composizione, fin dove si può, tenere insieme le cose in una forma del tempo.
Entrando nell’officina poetica di Gian Mario Villalta, come nascono i suoi testi? Che lavoro fa su di essi?
Per iniziare non basta una buona idea o una buona immagine: è necessario trovare un ritmo, una musica di parole, una scansione. A volte c’è solo qualche parola, a volte una sola e importante, alla quale non vogliamo rinunciare. L’inizio arriva. L’inizio viene. Poi c’è da lavorarci. E lavorare, in poesia, per me è sempre, prima di tutto, una questione di lingua. Ma ci vuole una forma dentro la quale la lingua trova dimensione, confini, realtà poetica. L’inizio contiene un tema, in foma di tonalità espressiva e in forma di semantica delle parole. In poesia, per me, si lavora molto di intenzioni, certo, ma è necessario predisporsi all’accogliere, al far accadere senso. Una poesia, quando prende forma, per me è qualcosa che deve un po’ sorprendermi, rivelare un aspeto della lingua e della realtà (a volte di me stesso) che prima non vedevo. I tempi sono diversi di volta in volta: ci sono poesie che si lasciano scrivere nel giro di qualche ora (ma è sempre bene lasciarle “riposare” un po’ di tempo e poi ritornare a vedere che cosa è successo – a loro e a noi – nel frattempo), e ci sono poesie che resistono, hanno bisogno di maturazione, alcune per anni.
Quali sono gli autori che hanno inciso maggiormente nella sua formazione poetica?
Non mi è facile sapere veramente quanto e come certe letture hanno inciso a fondo in me nel tempo: ho sempre letto molto, e la poesia è stata una passione precoce. Come faccio a capire quanto si è sedimentato profondamente Leopardi, per esempio, che conosco dalla terza elementare e non ho mai smesso di leggere? O Petrarca, o Dante? Se però devo segnalare gli “incontri” decisivi sul piano dell’orizzonte cosciente dello scrivere, direi, nell’ordine, dai diciassette ai trentasette anni, T.S. Eliot, Y. Bonnefoy, Paul Celan, Andrea Zanzotto. E Seamus Heaney. E nel frattempo tanti “fratelli maggiori” e amici, ma si tratta di un diverso rapporto, che necessiterebbe di un discorso specifico. Come un discorso specifico sarebbe necessario per Montale e Sereni, autori con i quali è impossibile non confrontarsi rispetto alla tradizione intera della poesia italiana.
In base alla sua esperienza di insegnante nei licei, perché un adolescente del 2015, diciamo pure un nativo digitale con un sistema di codici culturali e valori di riferimento diversi rispetto alle generazioni appena precedenti, dovrebbe leggere poesia? Cosa potrebbe trovarvi?
Il punto è essenziale: la forma poetica è qualcosa di molto più profondo del semplice tema che ne estrapoliamo o dei contenuti culturali che desumiamo da essa. In generale, l’attualità patisce proprio questo privilegio dei temi e dell’informazione, che produce una certa facilità informativa ma lascia disorientati sul piano della profondità espressiva. Credo perciò che un adolescente di oggi possa trovare nella poesia del passato quello che un adolescente trovava nella poesia che lo aveva preceduto al tempo dell’invenzione della stampa a caratteri mobili e del suo sviluppo: la necessità della forma e la sua tradizione (dico questo perché tra i due eventi si possono tessere forti analogie). Senza questa esperienza, di poesia ne viene poca. A meno che non vogliamo confondere le frasi ad effetto e l’espressione dell’emotività di un momento con la poesia. È un versante molto spinoso, che è difficile oggi affrontare. Ma ignorarne la portata significa abbandonare il terreno che è proprio dell’eredità poetica, ovvero della sua sostanza. La libertà di espressione poetica si conquista attraverso la poesia, non può essere una semplice presa di posizione pregiudiziale.