L’intelligenza della generazione: ‘Dalle fondamenta’ di Paolo Lisi

Tratesto

“Dov’eri tu quando ponevo le fondamenta della terra? Dillo, se hai tanta intelligenza!” (Giobbe 38, 4). La domanda che il Dio biblico rivolge a Giobbe, il quale si fa carico di rappresentare l’intero genero umano in ogni luogo e in ogni tempo, nasconde in verità una sfida. Così interpretata, potrebbe allora essere riformulata nel modo seguente: ‘Tu uomo, creatura amata, riesci a essere alla mia altezza? Cioè: puoi divenire, a tua volta, creatore? Sei capace quindi di generare, con le tue parole, qualcosa di bello, di stabile e di eterno (le fondamenta) come ho fatto io?’. Il buon Giobbe deve quindi aver compreso i termini reali della questione, evidentemente non così lontani da quelli che abbiamo appena delineato; tanto che, prefigurando una tale impresa, la sua risposta è quella di un uomo onesto che esce ridimensionato dal confronto con il Creatore: “Ecco, sono ben meschino: che ti possa rispondere? Mi metto la mano sulla bocca” (Giobbe 40, 4). Da questo passo ricaviamo due lezioni importanti: che l’intelligenza di Giobbe non è un’intelligenza strettamente poetica, volta cioè all’atto generativo; e che un poeta, al contrario, è quindi un uomo che è capace di rispondere alla domanda-sfida di Yahweh in quanto riconosce, nel proprio essere creatura mortale, i segni di una paternità amorevole che lo ha creato “a sua immagine e somiglianza”.
È con questi segni che Paolo Lisi, al suo sesto libro di poesia in circa trent’anni, fa i conti nell’ultimo Dalle fondamenta (Le farfalle, 2018), lavico e sofferto canzoniere di un uomo che nel mezzo del cammino torna all’origine per indirizzare meglio i propri passi, con rinnovato slancio, verso il futuro. Per portare a compimento quest’opera Lisi non si cura di nascondere il proprio vissuto dietro “nomi poco usati” o particolari artifici retorici del dettato poetico; la sua parola si presenta invece nuda al cospetto del lettore, senza schermi o infingimenti, sostenuta da un lavoro di cesello, a levare, che testimonia l’inquietudine e i desideri dell’uomo. Non è questo il caso, quindi, di una poesia confessionale nel senso pieno del termine (come in molti esempi che ci giungono d’oltreoceano): la parola di Lisi, scarna, ridotta alla sua essenza, suggerisce semmai il fondamentale e costitutivo anelito alla relazione, il desiderio di rimettere la propria storia nelle mani di un interlocutore perché questi possa custodirlo e a sua volta tramandarlo. Sulla falsariga del Dio ebraico, Lisi si cimenta dunque con un atto vitale come è quello di chi intende generare legami «dalle fondamenta». Per tale ragione egli è un poeta. Ovvero un Padre.
L’esergo che introduce alla raccolta ci indica più chiaramente questa chiave di lettura: «Perdonate questo padre // perché siete l’unica meraviglia / che porti il mio nome». Nel chiedere perdono per una mancanza o per una colpa commessa (E la colpa rimane è il titolo della raccolta precedente), l’io poetico di Dalle fondamenta si autodefinisce da subito come un poeta-padre il cui marchio è un amore incondizionato per il ‘tu’; filiale o, come nella prima sezione Frammenti di fuoco, femminile: «mi lanci addosso il tuo sguardo / il mio di rimando ti veste / di parole» (p. 11); «La parola / come un vento / le cinge la vita / le scioglie i capelli / le sorride le guance» (13). Non esiste incontro con l’Altro che non sia segnato da questa parola che agisce come un ponte tra due corpi. «La mia carne / ha solchi profondi» (17), scrive infatti Lisi, consapevole che questo amore non rimane inerte ma genera, ha generato e, se vuole «rincorrere l’ultima possibilità / di sopravvivenza» (18), deve continuare a farlo ancora e per sempre: «Devo solo prenderti / tra le braccia // e provocare l’innesco» (21).
Per questa via, il poeta è pertanto un uomo che attraversa le metamorfosi della vita avendo sempre davanti agli occhi la meta del viaggio e «nelle mani / la forza / per ricominciare» (29). E di conseguenza la poesia coincide con la sapienza del vivere non perché acquisizione ultima di un individuo, magari canuto e in là con gli anni, forgiato da tutte le prove che ha superato o meno; essa non è la somma perfetta di addizioni e sottrazioni che in un percorso biografico si succedono nel tempo, ma un lavoro di pazienza e premura che richiede la grazia aerea di un Funambolo e che non esclude fino all’ultimo la possibilità del fallimento, della caduta nel vuoto: «In equilibrio sul filo / mi guardavi cadere. Il vuoto / mi tentava. Lo cercavo / sciogliendomi dalla tua mano // per ingannare il dio cieco / della solitudine» (31). La sapienza del vivere contempla dunque anche la tentazione e la caduta, ma non in quanto legge di una qualche divinità cieca e lontana. È un’altra la forza che giustifica il senso di un vissuto lacerato e a cui rivolgere, «oltre la miseria di una vita in sordina / di una vita tra le retrovie e le rovine», l’implorazione di un cuore autentico: «Fammi sentire vivo. Dalle fondamenta» (43). Un cuore, va precisato, che non intende però rimanere estraneo al consorzio dei propri simili, la cui vicenda cioè non vuole essere considerata come un’espressione intimistica e privata.
Giunti all’ultima sezione che dà il titolo alla raccolta, la poesia di Lisi sembra infatti rivendicare, seppure con la mitezza e la pacatezza che sono proprie della sua voce, una maggiore aderenza agli avvenimenti del mondo e del proprio tempo; come nell’unica, incisiva e potente prosa del libro:

Solo perché mi lascio guidare dalle tue labbra non vuol dire che non sia partecipe e testimone di questo secolo. Il mio sguardo sul mondo taglia rasente agli angoli e denuda ferite e dolore. Solo perché scrivo versi non vuol dire che sia immune dall’inganno. Anche adesso che mi inviti a entrare nelle tue labbra: la stessa distanza tra amore e non amore (45).

La storia di Paolo Lisi, uomo e poeta, è pienamente inscritta nell’orizzonte del «secolo»; la dimensione degli affetti privati («mi inviti a entrare nelle tue labbra») è un fatto non chiuso in sé stesso, bensì storico e reale. Un fatto in cui si consuma il dramma di una vita in bilico «tra amore e non amore», che continua, sorda e silenziosa, come l’amante che guarda andare via l’amato con le sue promesse non mantenute: «La vita non è finita / è rimasta a guardare // come un’amante / o una ferita» (51). A tenere insieme «amore e non amore» è quindi lo sguardo del poeta, il quale, tramutandolo in parole, fa eco al Dio di Giobbe: «Io sono tuo padre / come te ho amato e odiato / e, col tempo, accettato il mio. / Per non dimenticarlo lungo il rimpianto. // Per quanto non mi abbia mai compreso. / Né io lui» (52). Queste e non altre sono le fondamenta, il seme che trova terreno fertile nel cuore del figlio che ascolta, il fuoco che una generazione tiene acceso per quella successiva al di là del rimpianto e della reciproca comprensione.
Ma per chiudere il cerchio, dal padre al figlio, il poeta non può fare da solo. Egli sa bene che occorre rivolgersi all’Altro perché questi sia il vero garante di una mediazione che, in nome dell’amore, è capace di spingersi anche fino al sacrificio estremo: «Cristo che trascini la croce / lungo il Golgota / Ti cerco nella paura della morte. / Dentro gli occhi / della madre di mio figlio» (55). Dentro questi occhi dimora lo sguardo del poeta.

Amore che attraversa.
Amore che passa.
Colpisci con la precisione del cecchino.
Poi. Lasciami immaginare, sentire
parlare la tua lingua sconosciuta.
Ti aspetterò.
Altro non posso in questa vita.
Amore che ho provato.
Amore che ho dato.
Che ho custodito e difeso.
Spingimi oltre.
Oltre la miseria di una vita in sordina
di una vita tra le retrovie e le rovine.
Quando non rimane niente
se non le mani aggrappate
alla radice dei capelli e ogni cosa
si scardina dal proprio asse
è tempo di cercarti
come un soldato la guerra il suo finire.
Fammi sentire vivo. Ancora.
Come uno spavento che frana nel riso.
Come uno schiaffo un graffio un morso.
Fammi sentire vivo. Dalle fondamenta.

 

Potrebbero interessarti