The Blues by Shelby McQuilkin x badanti
Shelby McQuilkin, The Blues

Maria ogni mattina siede al tavolo della cucina e si trucca. La signora T. la guarda incuriosita. Maria strofina creme, lucida le labbra, segna con tracce nere gli occhi. Poi si toglie i bigodini e cotona i suoi capelli scuri e corti. Indossa cinture che le strizzano la vita, poggia collane dalle pietre grosse e iridescenti al petto, mette orecchini luccicanti e infine si alza su trampoli instabili. È pronta per uscire. Bacia la sua signora e va a fare la spesa. Attraversa il quartiere con piglio da gendarme, gli occhi verdi fiammeggianti. Accende una sigaretta e sosta seduta ad una panchina. Dopo un’ora esatta torna. Cambia abito e comincia a cucinare. Apre le vetrate sulla vallata, guarda i monti luminosi, poi impasta polpette e frigge contenta. Assaggia un ragù denso e scuro, scola piatti abbondanti di pasta. Poggia sul piatto il prosciutto in volute eleganti, vi avvicina riccioli di burro. Poi taglia la frutta e la dispone a ventaglio irrorata di zucchero. Tutto è perfetto in lei. Accende la radio e mormora canzoni. Lei e la signora vanno a riposare. Ma la merenda è pronta nella coppetta, lo yogurt viene uscito dal frigo, i suoi occhi vanno ridisegnati con linee nere. Maria ha uno sguardo morbido, sa accarezzare i piedi della signora T., la imbocca e sembra cullarla. Le tocca le mani e dipinge le sue unghie di rosa perlato, lavora di lima e acetone. Le spruzza un profumo orientale. Sono pronte. Arriverà il fisioterapista. Lo accolgono festanti ambedue. Lui è alto e magro, ha muscoli alle braccia, riccioli nerissimi che scendono sul viso abbronzato. Quando finisce di massaggiare la signora T. Maria lo accoglie in cucina, gli prepara un caffè lungo e sporco, in una tazza alta e colorata. Parlano guardando fuori le nuvole bianche e strappate, la calura che si addensa in basso fra i rami degli alberi verdi. Si tengono per mano, lui fa il giro del tavolo e si inchina a baciarla. Gli occhi di Maria sono come cristallo, quelli di lui fondi e perduti. La signora T. dorme adesso sul suo letto. Vi è il silenzio dell’estate della città solitaria, delle strade svuotate. Stanno vicini sul divano. Maria ha seni di una giovinetta e fianchi larghi da donna. Da mamma. Il suo collo profuma. Lui ha l’afrore di chi suda piano.
Maria la sera cucina e pensa. Sa che finirà presto questa piccola storia italiana. Il marito le parla al telefono e litiga. Ha una voce imperiosa, il piglio di chi possiede. Ma Maria non si fa possedere mai, da nessuno. Lei conosce le notti in Polonia e quelle trascorse nella stanza sulla vallata. Maria partirà quando vorrà, quando il fisioterapista la saluterà per sempre.
E così avverrà. In un settembre di pioggia insolita, di umido che si posa sulla biancheria, sulle ossa fragili della signora T.
Anche Maria preparerà le sue valigie, i vestiti non hanno più posto, le scarpe rosse gli stivali di un bianco impossibile riempiono gli ultimi vuoti. Bacia con slancio la sua signora, le promette un affetto che duri. E parte. La sigaretta in bocca, il filtro macchiato di rossetto. Il fisioterapista le ha lasciato un dono incartato sul tavolo. Lei non lo apre. Lo lascia. Inguardato. Soffia il fumo in ascensore. Stringe la cintura in vita, si guarda allo specchio e poi via. Lontanissima.

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