Marianne von Werefkin (1860-1938), Nocturnal street scene in front of factory building, n.d.
Marianne von Werefkin (1860-1938), Nocturnal street scene in front of factory building, n.d.

rubrica nautilus

Parafrasando Céline, la stesura di un diario si può definire un “viaggio al termine dell’anima”. Portarlo a compimento credo sia impossibile, ci si può solo avvicinare alla meta: l’anima non ha confini, non se ne intravede il termine; ciononostante è un percorso da fare con fiducia e pazienza: è il viaggio stesso ad esserne lo scopo, a contenerne in sé la ragione. In fondo la ricerca conta più del suo oggetto, il più delle volte sconosciuto.
Tenere un diario può essere considerato un esercizio di manutenzione, come ungere gli ingranaggi di un motore. Basta un’oliata a questi meccanismi e lo spirito si ricompone, almeno per un po’: l’appuntamento con la pagina diventa così meccanico-terapeutico, se ne esce sempre un po’ sporchi di grasso, ma più sereni. Un tempo pensavo che scrivere un diario servisse al futuro, che il suo valore stesse nel fatto di poterlo rileggere a distanza di anni. Ho esperienza anche di questo, non è così. Non ci si riconosce mai in quelle note, ormai datate, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a un’altra persona, è come leggere un romanzo o spulciare un vecchio manoscritto: ha solo valore documentario, non dà piacere o consolazione. Un diario lo si scrive per il presente, per dialogare con sé stessi. Per trovare compagni trovando sé stessi, come diceva Pavese. È un monumento alla solitudine.
A volte sembra vivere di vita propria: ecco cosa annotavo, con un po’ di sorpresa, una sera: “Questo diario prosegue a mia insaputa: dimentico che lo sto tenendo, poi d’improvviso me lo trovo davanti”. Probabilmente scriverlo diventa un gesto automatico, non controllabile. E ancora: “Un diario è un documento implacabile: mette a nudo, anche non volendo”. Per questo ci si può trovare di tutto, anche cose che in altri momenti non si sarebbero mai scritte. Il mancato riconoscersi è dovuto al vivere stesso che ci muta, e muta anche la nostra percezione delle cose. Così, leggere di qualcosa che ci ha fatto soffrire in passato può provocare un sorriso perché si sa per certo che oggi non ci tangerebbe più di tanto. Ѐ l’esperienza che fa da discrimine tra il dramma e la commedia (e a volte la farsa).
Dunque l’annotare gli avvenimenti e le riflessioni che inducono può avere una funzione medicamentosa: tuttavia credo che l’oblio sia una necessità di sopravvivenza. D’altronde anch’esso è un dono divino, come la memoria: pensate se dovessimo tener presente ogni momento tutto quello che ci ha provocato dolore… Una forma inconscia di autoprotezione, dunque, come un “salvavita”, di quelli degli impianti elettrici. Ne ho avuto la prova dando un’occhiata a qualche mia pagina giovanile: è stato come esplorare un mondo ignoto, quello lì descritto non lo sentivo mio, era un abisso, troppo lontano dall’uomo che sono oggi: il salvavita era scattato, negli anni, proteggendomi dal dolore peggiore, quello del ricordo.
Di solito un diario lo facciamo percorrere, più o meno sotterraneamente, da molte persone la cui strada si è incrociata in qualche modo con la nostra, ma più da quelle che ci sfuggono. Questo dipende dal fatto che lo consideriamo una specie di rifugio, un luogo di straniamento in cui meditare sul perché delle cose, più che sul come. E tra i maggiori perché della vita c’è quello sulle persone che ci interessano, ma a cui, evidentemente, noi non interessiamo altrettanto. La ferita narcisistica è grande: per quanto ci sforziamo di negarlo, siamo sempre innamorati di noi stessi e non ci pare possibile che questo innamoramento non sia generale. Così ho scelto di non far transitare per le pagine del mio quaderno a quadretti tutte le donne che mi hanno attraversato i giorni, comprese quelle con cui ho raggiunto il culmine della felicità, ma principalmente quelle la cui sorte avrei voluto, ma per varie ragioni non ho potuto, legare alla mia. La ragione è che lo vedo come il luogo dove parlo dei miei desideri più volentieri che della realtà, di come vorrei che la mia vita fosse piuttosto che di come è. Non c’è male in questo. Basta non considerarlo uno specchio, ma la deposizione di un imputato al suo processo: se mento o taccio fa parte dei miei diritti. Ma la verità nella sua sostanza viene fuori e in fondo è quello che vuole chiunque scriva un testo del genere. Non si vedrebbe, altrimenti, il motivo del deporre su un foglio di carta i pensieri, oltrepassando i confini dell’esistenza, lasciando cioè che altri sappiano di noi, magari in un futuro lontano. Ed io, col mio diario, non faccio eccezione.

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