Microcosmi. Camilla Ziglia, Rivelazioni d’acqua.

Microcosmi a cura di Carlo Tosetti

 

CAMILLA ZIGLIA, Rivelazioni d’acqua, Puntoacapo Editrice, Pasturana (AL) 2021.
Recensione di Annalisa Rodeghiero

È all’acqua che Camilla Ziglia sceglie di affidare le sue rivelazioni sull’esistere, all’acqua intesa come elemento naturale primigenio ma anche come ambiente naturale d’elezione cui consegnare l’anima per lasciarla andare al fondo e poi elevarla al cielo. È il lago il luogo in cui Camilla, con grazia, invita il lettore a entrare: «Stai qui, senti/ – ti piace? –/ è il mio giardino/ sulla sponda del lago». Sulla sponda, in limine dunque, sulla soglia tanto cara ai poeti dove si percepisce intera la verticalità bidirezionale dello sguardo: l’infinito tumultuoso sotto la superficie, «ventre nero del lago» e sopra, l’infinito cielo «sull’altissimo universo». Il velo d’ordine apparente è lo specchio orizzontale del lago («In superficie la calma/ delle cose compiute») quella terra di mezzo tra terrestre sommerso e celeste riflesso, tra le cose dicibili e quelle intraducibili:

La zona tra due onde
come una molla carica
conserva immobile
la verità dell’acqua

 

senza forma, colore, senza tempo
e senza neppure il nome. (p. 55)

Ecco la verità conservata nell’origine dove tutto ha inizio, ecco la bellezza custodita nella verità semplice e al contempo complessa che la natura stessa trattiene nella quiete composta, ecco il mistero.
Così la nebbia nasconde, ma più copre le cose e più apre visioni d’infinito ma è anche, come in Sereni (autore riecheggiante con meno forza di Montale, ma tuttavia ben presente), frammezzo tra presente e passato:

La nebbia a primavera perde
il fumo dei camini, sbianca
la fioritura del mandorlo
e lascia i rami neri

a ricordare com’erano
sul cielo di gennaio: adolescenti
nudi nelle trame azzurre del possibile. (p. 35)

E così il vento, antico archetipo, scheggiando l’«aria del lago» annuncia il cambiamento e «la luce si fa strada nel respiro» (in “Stagioni di percorsi”).
Sono tanti gli abitanti, animali e vegetali, che Ziglia consegna al nostro sguardo e non riesco a non citare l’immagine riuscitissima dell’«insetto pattinatore» che «s’allontana sull’acqua» spaventato dalla frantumazione della «bugia dello specchio» dovuta alla caduta di una «foglia tardiva» o quella del «ramo» che «s’inarca nell’accordo», della «sassifraga» di «come si riallaccia» e fiorisce. In realtà tutto lo scenario naturale dentro e attorno al lago disegna nei versi il paesaggio dell’anima attraverso rivelazioni che sfiorano il mistero e il sublime nella terribile bellezza che probabilmente, tanto sarebbe piaciuta a Rilke:

Dove il prato espone la groppa
ai primi raggi sale
in controluce
il respiro della terra
che si fonde
al fiato quieto del cavallo.

Paiono docili vita e morte
insieme, terribili. (p. 16)

Queste arcane epifanie che dalla natura tutta giungono e che stupiscono in primis la poetessa, trascinano decisamente il lettore fuori dall’ordinario, facendogli rivivere piccoli tocchi di luce e non è cosa da poco se si pensa come in poesia ci sia una sempre più diffusa tendenza a perdere il contatto con la trascendenza. Antitetici la gioia e il dolore, la luce e l’ombra, la vita e la morte non si osteggiano ma arrivano a essere “uno” nella coincidenza degli opposti, nella ciclicità del tempo – «c’è un momento dell’alba/ che torna al tramonto» – nel giorno breve e fragile che è la vita, a volte quieta a volte sospesa nelle diverse stagioni dell’anima. Quattro quelle suggerite da Ziglia: la stagione della mancanza e quella del perdono consapevole e voluto, la stagione di promesse e quella di nuovi percorsi. Tale suddivisione lascia soltanto intravedere alcuni segni autobiografici di solitudine e d’attesa, di coraggio e pazienza ma l’esperienza personale, dono di luce a zone d’ombra altrimenti sconosciute, nutre solo velatamente il dettato. Laddove accade, il risultato è straordinario, basta ascoltare questi passaggi: «può essere la morte tanto/ pazza della vita, da guardarla/ piano negli occhi/ e alitarle in bocca?» (non a caso inseriti nella stagione sofferente “della mancanza”), oppure questi, “di sangue” e preludio al “perdono”: «M’ha strappata a viva forza/ strattonata per i polsi/ all’apertura delle imposte» riferendosi ad un cielo «violento» e, notiamo questo aggettivo in chiusa, uno dei pochi usati: «invincibile!». Rivelatrice è comunque in fondo sempre la natura che, come in un processo d’osmosi, assorbe in sé il poeta: «Sprofondare largo/ farsi terra/ respirarne le muffe e la torba/ finché non serve più/ respirare» (p.36), ne cattura i sensi permettendogli di “vedere”, di “sentire” di “toccare” la verità cercata per poi lasciarlo tornare alla realtà delle cose, verso «la strada di casa».
Ne risulta una poesia sapienziale ed essenziale, fatta di suoni naturali e di assoluti silenzi, una “poesia che accade in sé ed è in sé compiuta” come ben scrive in prefazione Ivan Fedeli. C’è grazia nello stile delicato, la stessa che la poetessa vede e percepisce nel creato ma anche asciuttezza se è la verità a richiederla. Un altro punto di forza sta nella brevità e nella compiutezza assoluta del verso, dove ogni parola è essenziale, piena e insostituibile. È poesia visiva, tattile, sonora quella di Ziglia, una poesia per immagini splendide, catturate anche con sensi altri che non appartengono a «chi legge il mondo su assi cartesiani» ma solo ai poeti in una visione «diagonale» che li colloca in quel non-luogo insostituibile, «breve alone ceruleo che separa/ il chiarore dalle ombre», in quella zona sacra «tutta esposta al vento» dove è facile ritrovarsi quanto perdersi.

Potrebbero interessarti