Piero Guccione

Piero Guccione, L’ombra e l’ibisco (su fondo grigio), 1994

 

Una larga notte e anch’ora in dentro nasce
un punto di contemplazione
era una lacrima
l’antica e già insediata estremità
colui che visse tanto da soffrire i suoi tessuti e anch’ora
camminò lungo le rive più argillose e sempre vide
come può vedere una lampante stella: a fiotti
di corrente: appassionata l’aria calda per se stessa
e per un attimo donato ai rapimenti
di chi sa dire grazie
al fiore capriccioso degli dei perché mai
e mai ha avuto cosa bella più dei graffi e gemiti
disegni di parole e logiche
la voce
il gesto tragico d’allontanarsi e nuovamente
accogliere nell’agio suo cerchiato di corallo. Ma
le ore perniciose sono i fiori che ci legano
così la terra
destinata può riabitarci in forme
germoglianti più del verde di quell’erba incenerita dai respiri
se talora basta un niente a radicarci
quasi ingenui ci sorprende o che smarrissimo
le cellule in un fiume già disposti a ruzzolare
nel tremore così il vento
di stasera che mi trema le giunture abbevera
il silenzio – era caduto gelido e incolore se frantuma
le teorie capaci in vortici e desii nel sangue vivo e chi
l’ha molto amato – così le immagini
di vivere e sognare fondono
confondono
rivogliono la vita ed è proprio vita che ci vuole
come fosse vita come il vento di stasera
che mi trema le giunture e io non so
di che memoria sopravvivo, forse odore buono di matite,
se mi dorme il tempo come un tempo ride
il dono nella foce o fu perduto in fossili cavati
sospirati al buio oppure nuvola che nasce
dalla terra quasi d’impeto mi cresce e mi deflagra
in un milione di granelli. Poi più nulla. E rivedo
in vastità argentata come spargessi petali dagli occhi
tutt’intorno
già coperto tutt’intorno aperto, sì, un mattino
troverà riflesso in qualche occhio oppure in vene d’oltremare
un mattino scoprirà tuonare nel biancore
la sua tempestità come sicuro nettare, il più vero.

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