“Nostos IX”: Giorgio Caproni

Nostos, ritorno alla parola
Rubrica a cura di Luca Pizzolitto

 

Da Giorgio Caproni, “Sulla poesia” (Italo Svevo, 2016)

Io non sono un dottore in poesia – non ho un laboratorio mentale, vi leggo gli appunti scusatemi – abbastanza attrezzato e tantomeno presumo di potervi dare una lezione di poesia. Sono un modesto artigiano. E penso, in fondo, che l’antico vasaio, per esempio, non si preoccupasse troppo di discettare intorno alla natura e all’essenza di un vaso, ma <di> costruire vasi che fossero quanto più possibile belli e utili. Cioè vasi riusciti, si direbbe oggi, sia in senso estetico sia in senso funzionale.

(…)

Credo di aver già affermato che definire che cos’è la poesia non è mai stato nella mia ambizione. La mia ambizione, o vocazione, è sempre stata un’altra: riuscire, attraverso la poesia, a scoprire, cercando la mia, la verità degli altri, la verità di tutti, o, per essere più modesti e più precisi, una verità, una delle tante verità possibili che possa valere non soltanto per me, ma anche per tutti quegli altri mézigue o me stessi, che formano il mio prossimo del quale io non sono che una delle tante cellule viventi.

Il poeta è un minatore, è poeta colui che riesce a calarsi più a fondo in quelle che il grande Machado definiva las secretas galrías de l’alma. E lì attingere quei nodi di luce che sotto gli strati superficiali, diversissimi tra individuo e individuo, sono comuni a tutti, anche se pochi ne hanno coscienza.

L’esercizio della poesia rimane puro narcisismo finché il poeta si ferma ai singoli fatti esterni della propria persona o biografia. Ma ogni narcisismo cessa non appena il poeta riesce a chiudersi e inabissarsi talmente in se stesso da scoprirvi, ripeto, e portare al giorno quei nodi di luce che non sono soltanto dell’io ma di tutta la tribù. Quei nodi di luce che tutti i membri della tribù possiedono, ma che non tutti i membri della tribù sanno di possedere o riescono a individuare.

Mi pare che sia stato Proust, potrei sbagliarmi a dirlo, <a dire che> quando uno legge un poeta in fondo non fa che legger se stesso. Quel poeta ha raggiunto in se stesso una verità che vale per tutti e che già, come la bella addormentata nel bosco, sonnecchiava in tutti in attesa di essere svegliata. E s’arriva così all’altro paradosso: che quanto più il poeta si immerge nel proprio io tanto più egli allontana da sé ogni facile accusa di solipsismo, appunto perché in quella profondissima zona del suo io è il noi. Un io che, dalla singolarità, passa immediatamente alla pluralità. La funzione sociale, civile della poesia sta, o dovrebbe stare, appunto in questo.

SENZA ESCLAMATIVI

Com’è alto il dolore.
L’amore, com’è bestia.
Vuoto delle parole
che scavano nel vuoto vuoti
monumenti di vuoto. Vuoto
del grano che già raggiunse
(nel sole) l’altezza del cuore.

*

RITORNO

Sono tornato là
dove non ero mai stato.
Nulla, da come non fu, è mutato.
sul tavolo (sull’incerato
a quadretti) ammezzato
ho ritrovato il bicchiere
mai riempito. Tutto
è ancora rimasto quale
mai l’avevo lasciato.

*

                      BIGLIETTO
LASCIATO PRIMA DI NON ANDAR VIA

Se non dovessi tornare,
sappiate che non sono mai
partito.

Il mio viaggiare
è stato tutto un restare
qua, dove non fui mai.

*

A RINA

Senza di te un albero
non sarebbe più un albero.
Nulla senza di te
sarebbe quello che è.

*

CONCESSIONE

Buttate pure via
ogni opera in versi o in prosa.
Nessuno è mai riuscito a dire
cos’è, nella sua essenza, una rosa.

 

Giorgio Caproni nasce a Livorno il 7 gennaio 1912, è uno dei massimi poeti del Novecento italiano. Di origini modeste, il padre Attilio è ragioniere e la madre, Anna Picchi, sarta. Giorgio scopre precocemente la letteratura attraverso i libri del padre, tanto che a sette anni scova nella biblioteca paterna un’antologia dei “Poeti delle Origini”, rimanendone irrimediabilmente affascinato e coinvolto. Nello stesso periodo si dedica allo studio della Divina Commedia, dalla quale s’ispirò per Il seme del piangere e Il muro della terra.

Il suo esordio nel mondo delle lettere avvenne mentre era in pieno svolgimento l’esperienza ermetica, alla quale tuttavia rimase estraneo, più sensibile a descrivere gli aspetti più minuti e di solito poco avvertiti della realtà. Seguiranno le raccolte di versi Come un’allegoria (1936), Ballo a Fontanigorda (1938) e Finzioni (1941).

Dopo aver combattuto nella seconda guerra mondiale e aver partecipato anche alla Resistenza, nel 1946 si trasferì a Roma dove, per vivere, fece i mestieri più vari (tra i quali il violinista, l’impiegato, l’insegnante elementare) e fu anche un efficace traduttore. Nel secondo dopoguerra, Caproni si è misurato, con i versi de Gli anni tedeschi (1943-47) – pubblicati, insieme alle Stanze della funicolare (1952), nel volume Il passaggio di Enea (1956) –, in cui è centrale il tragico tema della guerra. Altri temi da lui prediletti, che formeranno altrettanti nuclei problematici della sua poesia, saranno quelli della città, della madre, del viaggio, quali vengono cantati ne Il seme del piangere (1959), e nei versi poi raccolti in Terzo libro e altre cose (1968). A partire dai suoi libri più recenti, da il Congedo del viaggiatore cerimonioso e altre prosopopee (1965) a Il muro della terra (1975), per giungere fino a L’ultimo borgo (1980), Il franco cacciatore (1982) e a Il conte di Kevenhuller (1986), Allegretto con brio (1988), al sentimento di ricerca-perdita di Dio subentra nel poeta il sentimento raggelante del nulla e della morte. Muore a Roma il 22 gennaio 1990. 

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