Gianluca D’Andrea è un poeta ossessionato dalla circolarità del tempo. Già nel precedente Nella spirale (2021) individuava nel ciclo delle stagioni naturali un’idea di «catastrofe» che mal si accorda con il logos del tempo lineare. In Nuovo inizio (L’arcolaio, 2023) non c’è nessuna freccia in attesa di compimento e quindi non c’è nessun bersaglio. Piuttosto, la scrittura di D’Andrea ci ricorda i paradossi di Zenone, e in questo nuovo libro – prosimetrico per forma, poematico per intenzione – il movimento resta un’idea da confutare.
Nella prima delle due parti che lo compongono, Lo spettacolo della fine, D’Andrea sembra parlare da un punto postumo del tempo e dello spazio. Postumo evidentemente rispetto a un Evento che ha sancito un limite nella coscienza umana di specie («giunge al tracollo lo spirito», p. 17). Come il protagonista di 2001: Odissea nello spazio, la voce esperiente che organizza il discorso si presenta intrappolata in una capsula spaziale dove presto arriva a mancare l’aria. Sembrerebbe proiettarsi verso il futuro, invece questo soggetto si rivolge al passato, alla ricostruzione asfittica di una memoria che vorrebbe essere il più possibile collettiva. In accordo con quella predisposizione della scrittura di D’Andrea alla circolarità, il futuro quindi è un punto del passato, o viceversa: «Mi sveglio sempre nell’immagine / una volta celebre di Vertigo» (p. 22). La fine e l’inizio qui non si vedono ma, come nel libro precedente, il debito consoliano si manifesta nell’architettura elicoidale del concept di fondo: «la spirale dei giorni è una cordata di caselle sostituibili indirizzata al controllo» (p. 24). Nello “spettacolo della fine”, l’Io di D’Andrea è al contempo osservatore e attore, scrivente e scritto, cortocircuito spaziotemporale:
Immagino di vedermi dall’alto mentre percorro il sentiero di frecce e reparti, mentre m’imbosco in una stanza ammobiliata piena d’anfratti artificiali che simulano una nuova avventura, mentre, affacciandomi da uno dei balconi per fumatori, gusto un panorama di parcheggi apparentemente ripetitivi, in realtà punteggiati da macchine sempre diverse, le cui posizioni mutevoli e gli spostamenti formano il raccordo con un movimento più grande. (p. 28)
Più precisamente, al riparo (o in gabbia?) della capsula, venuta meno la tangenza dell’alterità, esso si riconosce nello specchio dell’ossessione: «Sviluppare un tema nel dettaglio con tutta l’arte possibile e talvolta in modo labirintico» (p. 32). Una volta compiuto il proposito, lo spazio tra i generi scribendi si fa poroso e i modi retorici si sfrangiano, così il racconto diventa poesia, la poesia saggio socio-antropologico, il saggio nota privata di lettura, e via dicendo. È chiaro che ci troviamo in un universo letterario labirintico perché esploso, frantumato, dove ogni scheggia rimanda alla relazione dell’Io con il mondo, o piuttosto alla sua impervietà:
La possibilità di espropriarmi dovrebbe spettare alla mia libertà di decidere entro limiti che consentono il rispetto, nella condivisione, della libertà dell’altro. Ma se ognuno è nella stessa condizione, per cui si è liberi di svincolarsi da ogni attrito che potrebbe ledere la stessa libertà, allora non posso che stare nella mia capsula a stilare profili, disegnando dati che costruiscono i miei con-fini, rendendoli più solidi e sicuri nella trasparenza di un’informazione che riguardi solo me e lo strumento che utilizzo per comunicare me a me stesso, ecc. (p. 49)
Dal solipsismo della capsula si esce individuando una soglia, un confine amico, la costruzione di uno spazio familiare. Da qui inizia la seconda parte, Nuovo inizio, che però sconfessa subito la novità di cui pure vorrebbe farsi portatore: «Chi resterà saprà continuare oscillando nel cammino che è inizio e fine» (p. 99). D’Andrea è troppo contemporaneo di Qohèlet per non ricordare che sotto il sole si presenta sempre lo stesso “spettacolo” che non finisce e non inizia niente; benché forse, alla prima luce del mattino, si diano le avvisaglie di una possibilità diversa che il poeta sa riportare sulla pagina:
Saliva in un’alba velata.
Si pensava solo con pochi oggetti
nell’aria mite del dopo.
La luce del sole riflessa sulle prime foglie.
Germogli nella meraviglia degli intrecci,
nei rami il riflesso dell’alba.
Camminava, pellegrino
a una meta senza contorni,
nell’aria vacua rintracciava segnali.
Al tramonto si accampò per la notte.
Pioveva, chiese ospitalità alla notte.
I sentieri s’incrociavano,
rischiava di smarrirsi
prima di dormire. (p. 95)