Le vite attraversate. L’eterna nostalgia. Il mistero. Il dolore. La coscienza. La somiglianza. L’alta «testimonianza della gioia/ di un’intimità raggiunta/ per sufficienti istanti». La destinazione, «dove non è più il male». La meraviglia, come il portare «le cose/ con la fiducia dell’amore». La salvezza (possibile). Le ore felici, «vivi anche solo/ a rubarle, le mandorle,/ a piedi nudi negli orti». L’insopprimibilità. Il tutto che permane, «in questa luce/ in quest’aria di niente». Parliamo nel nuovo radiante libro di Paola Loreto, “Miei lari”, edito da “Marcos y Marcos”. Un’opera che fronteggia in pienezza il tema della perdita mediante rievocazioni adamantine, inermi come il respiro. Un’opera “matura e conturbante”, che, come scrive Fabio Pusterla, direttore della collana di poesia con Massimo Gezzi, “sin dal titolo indirizza il lettore verso la riscoperta e la custodia di un passato che proietta a ritroso la sua intensità, obbligando a rileggere anche i libri precedenti in una prospettiva più complessa e più nitida. Una famiglia scomparsa: la sorella in modo crudele, molti anni fa; il padre e la madre più recentemente, dopo essersi diversamente addentrati tra le rovine di un lutto e la caparbietà della vita; altre figure, tra cui quella dell’io, che attraversano gli anni, e che la parola della poesia rivela e protegge, con lucidità e pietas”.
Dopo un lungo silenzio, qual è stata la “scintilla” che ha portato il tuo “Miei lari”?
Penso che ogni libro di poesia debba essere il prodotto di una distillazione attenta e lenta, per questo tengo le mie poesie a lungo “nel cassetto” prima di congedarle. Soprattutto aspetto che prendano posto, spontaneamente, nell’architettura di un libro, che penso sempre, appunto, come libro: una struttura unitaria, coesa, articolata sempre, per me, in sezioni, che sono svolte del pensiero poetico, snodi del suo significato. Miei lari ha cominciato a “comporsi” quando mi sono resa conto che la mia famiglia non c’era più: avevo perso tutti ed ero rimasta sola. Allora il pensiero è andato alla memoria, alla rivisitazione di quello che era successo, della nostra storia e dei nostri gesti, delle nostre azioni e emozioni. Credo siano eventi e sentimenti comuni a molte famiglie (non hai idea di quante storie simili il libro sta richiamando attorno a sé). Miei lari è allora un libro familiare, che vuole riportare i miei cari a casa, come se potessero diventarne i numi tutelari, custodire questo spazio che è il primo della relazione con gli altri.
“Tutte le estati fanno un’estate sola/ e il senso è in miniatura,/ lo stesso, incompiuto.”, con i tuoi versi per chiederti: le parole bastano alla poesia?
L’ho sempre creduto e lo credo, altrimenti non scriverei. Scrivere poesia – come fare arte in genere – è il tentativo perennemente ripetuto (e perennemente fallibile e inadeguato) di dire il senso delle cose, ma qualcosa, nelle occasioni più felici, riesce a suggerire quella percezione, che abbiamo nel profondo, di cosa è il mondo, e di quanto gli apparteniamo. L’incompiutezza a cui faccio riferimento nei versi che citi si riferisce alle nostre aspettative. La poesia appartiene alla prima sezione, Arcadia, nella quale cerco di rievocare il mondo dell’infanzia e dell’adolescenza, con il suo orizzonte apparentemente infinito di aspettative, appunto, e la sua esistenza sensuale, la sua adesione incondizionata alla vita che deve venire.
Ad oggi, dove sei stata condotta dalla poesia e qual è stato l’insegnamento?
Sono stata condotta nel bel posto che è la mia coscienza del mio stare al mondo. Credo che la poesia sia una forma di pensiero profondo, intuitivo, che ci parla attraverso il linguaggio. Quando mi capita di rileggermi, vedo cosa ho compreso: il mio amore incrollabile per la bellezza della forma delle cose (nell’Acero rosso), la fiducia nella memoria che il corpo ha della nostra esperienza (nella Memoria del corpo), il senso profondo, paradossalmente benefico, delle crisi gravi che ci colpiscono e ridimensionano i nostri ideali (in case | spogliamenti), il bene di accettare la mia posizione nel mondo, il mio sistema di relazioni (come cita l’epigrafe da Ralph Waldo Emerson di Miei lari).
La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?
La poesia è soprattutto la lingua dell’invalicabile. Per il valicabile abbiamo l’altra, il discorso lineare che usiamo per comunicare informazioni e dati a fini utili.
“Io non lo so/ dove siete finiti/ tutti./ Ma in questa luce/ in quest’aria di niente/ qualcosa/ qualcuno/ c’è.”, ancora i tuoi versi per chiederti: la poesia può colmare la pensosa solitudine del poeta? Può colmare l’inascoltato?
Sicuramente la scrittura colma la solitudine perché è una chiamata a raccolta del senso: tutto parla, nello spazio della scrittura – le cose, le persone, gli eventi, la storia, i sensi e le idee – e tutto precipita in una forma appagante. E credo che lo faccia anche la lettura creativa, l’ascolto attento e partecipe. Voglio pensare l’inascoltato come una possibilità, di ascolto, un’offerta che attende di essere accolta, altrimenti non scriverei. O sarei molto triste.
La poesia è un destino?
Sì, per me lo è. E credo che chiunque sia davvero chiamato a scrivere direbbe lo stesso.
Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una tre poesie dal tuo libro – (gentilmente riportale) – e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che le ha viste nascere.
Scelgo allora una poesia per ogni sezione del libro eccetto quella più “sensibile”, Elegiaca, dedicata a mia sorella e alla sua precoce, e violenta, scomparsa. Di Arcadia, da cui traggo “C’era una dolcezza, la sera, all’imbrunire”, ho già parlato. Da Album scelgo la “Foto 8”. Questa sezione è forse quella da cui è nata l’idea del libro: è lo spazio della rammemorazione del passato, che è cominciata qualche anno fa guardando delle foto in un album di famiglia. Questa poesia, in particolare, è un monologo drammatico: parlo a mia madre, seduta su una sedia di legno in giardino, mentre mi guarda appoggiata e addormentata sul suo petto con uno sguardo dolcissimo e appagato, appena tornate dall’ospedale dove mi ha data alla luce. Da Corrispondenze, invece, la sezione in cui parlo a tutti e tre i membri della mia famiglia, come in un dialogo a posteriori, pacificato, ripercorrendo i momenti e i sentimenti più vivi che hanno fatto la nostra storia, tolgo “Cara Mari”, una lettera, appunto, a mia sorella.
C’era una dolcezza, la sera, all’imbrunire.
Un arrendersi all’abbraccio del buio
un lasciarsi andare. Nessun sospetto
che significasse la fine.
Tutto era attesa
rilascio cominciamento.
O forse la fine era dolce,
come una ricompensa.
***
Foto 8
Qui sembro ancora nel tuo grembo.
Il profilo delinea una figura sola:
una giovane donna (segantiniana)
compostamente assisa su una sedia
di legno, la schiena appoggiata
allo schienale, la testa reclinata
e quasi unita a quella di una neonata,
una palla omogenea e ovale
abbandonata sul tuo seno (benedetto),
ignara. Sei appena uscita dall’ospedale
perché fan difetto al tuo solito,
pudico decoro le ciabatte.
D’altronde le copre
quasi interamente un vestito
che giurerei hai fatto tu, a quadri
e alla moda. Sei stata giovane,
anche se ai figli non sembra mai.
Supplisci con tutti i tuoi (pochi) ori
che una zingara ti ha poi rubato.
In primo piano il bracciale pesante
a catena della nonna, il ricordo di un’assenza
improvvisa, brutale e piena di conseguenze.
Ma qui chiudi il cerchio tra madre e figlia.
Qui non hai altro da desiderare.
Sei al tuo posto. Non devi pensare.
Tutto è stato compiuto.
Il mondo si regge sul pilastro
di un dito mignolo che è l’arto
più minuto del quadro,
disteso a indicare la via.
Dormo tranquilla.
Tutto deve venire.
***
cara Mari,
è il giorno dei morti
e tu ormai, di fatto, potresti
considerarti tale
visto che non sei più tornata
e neanche riapparsa
da qualche parte
nota, nota ad altri, o ignota
non ti ho più pensata
si direbbe in un certo senso
inaccurato
perché ti ho pensata, a volte,
(quante!)
ma non sufficientemente
non abbastanza per dire
di essere stata
con te
di avere continuato
a stare con te
ti ho lasciata
andare dove sei
voluta (o dovuta?)
finire, si potrebbe dire,
oppure
che ti ho rimossa,
come si dice,
dalla mia coscienza
non per sopravvivere
(si sopravvive meglio con i morti)
ma per stoltezza di vita:
perché anch’io ho cominciato
a morire
e in modo molto meno
significativo
cara Mari
sarebbe ora
cominciassi a pensarmi
un po’ tu
(a tenermi un po’ in vita)
per lo meno il necessario
a farmi bene
finire
(la versione ridotta di questa recensione-intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 03.10.2024, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).