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Foto di Dino Ignani

Parola d’Autore

«Sto nel cuore dell’epoca, ho di fronte
una via incerta, e il tempo crea miraggi»

O. Mandel’štam

Nel suo fondamento la poesia, nella sua pratica – perché ancora parlare di fondamento è assumere una terminologia abusata che richiama concetti altrettanto abusati, come sostanza, ecc. – è il concretarsi di un’ombra attraverso un’immagine. Tentando di essere più precisi: attraverso una lunga sensazione da cui si presume possa formarsi qualcosa. Aisthēsis, il nostro tatto interno – quante volte da piccolo, con i sensi completamente scoperti, sentivo giungere un’onda indescrivibile di percezione, ed era “altro” dentro me stesso? era il “noi” caproniano? («Quanto più il poeta s’immerge nel proprio io tanto più egli allontana da sé ogni facile accusa di solipsismo, appunto perché in quella profondissima zona del suo io è il noi», G. Caproni) – forma veramente qualcosa: l’illusione della nostra presenza. Non la materia di cui sono fatti i sogni, ma più prosaicamente la materia che si affianca a un segno, fino a trasferirsi totalmente in esso, nell’artefatto che da sempre ci supera, ci schiaccia in una “disidentificazione” che, finalmente, rende fattiva la nostra scomparsa. Forse per questo, l’essere umano, oggi, immerso e sostenuto da una massa abominevole di artefatti, oscilla tra una resa definitiva alla verità ultima dell’oggetto, che è liberazione assoluta, e la costante frustrazione della perdita del proprio ruolo identitario, conquistato, sin dagli esordi, al prezzo di sacrifici abissali, come ad esempio la rinuncia alla verità della scomparsa, a favore del desiderio di sussistenza, del segno banale che “fa” presenza.
La poesia non fa che confermare quell’oscillazione, ma più come il ricordo ostinato della necessità di essere dentro un quadro già definito, finito. Come fosse il raggiungimento di una massima libertà dentro il suo opposto.
Nel passaggio dalla definizione alla liberazione nel finito, allo stesso modo «passano le figure» (Acquario, in Transito all’ombra, p. 47), ma come «ombre» e «flussi trapassati», «membrane che respirano / le azioni compiute» (ibid., p. 47) e frazionano il tempo, gli rendono giustizia nel movimento consequenziale che si sviluppa dal respiro. La nascita del ritmo risiede in questa libertà necessaria, cioè andare “a capo”, oggi, è un’esigenza che il soggetto ricava dalla, in questo caso sicuramente primaria, necessità di libertà: è la solitudine del soggetto a far sì che avvenga un ritmo e, infine, la scelta del respiro.
Resta un’interrogazione, com’è possibile assimilare al ritmo personale un respiro collettivo? Come acquisire altro “fiato”, se non attraverso la conoscenza dell’altro nel suo racconto, nella sua storia? in una parola, nel ricordo:

 

«Mente, de gli anni e de l’oblio nemica,
de le cose custode e dispensiera
vagliami tua ragion, sì ch’io ridica»

(Tasso, Gerusalemme Liberata, I, 36)

ma solo

«nell’oblio di un ricordo che non può essere ricordato»

(Aspettavo la storia di un quadro millenario, in Transito all’ombra, p. 42)

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cinque testi da Transito all’ombra, Marcos y Marcos, 2016

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La storia, i ricordi

VII.

Acquisimmo, assorbimmo, attraversammo
il passaggio del millennio e il livello
si ridusse in esplosioni nere,
i grattacieli, gli uccelli, figure
disegnate come rondini nel cielo cupo,
fissi a un dislivello in cui le frontiere
e gli impatti ebbero il dissapore
del dubbio. Da allora niente,
una scomparsa, idee allusive:
mura tra virtù fibrose,
connesse all’impaccio di un’agricoltura di ritorno.
Il campo è coperto di residui,
la polvere aspetta l’acqua che la copre.
Poi, un po’ di sopravvivenza della luce
senza il coraggio della presa,
volte e architravi e solchi
e tranci di cielo rosa.
Parlavamo minimale o tronco,
in astratto, di traiettorie interstellari,
membrane, lacci e buchi,
quante soluzioni per le mani,
proteggemmo persino i liquami
che intanto scorrevano nei parchi,
nei campi.
Per anni osservammo le nuvole
accompagnando ai pronostici
le previsioni meteo e uscivamo
cercando di portare a casa la pappa;
un padre torna con un sacchetto,
nell’altra mano la figlia
stringe (o è stretta),
accanto un’auto calpesta le foglie.
Ci accampammo per alcuni giorni
tra le macerie, ai margini di altre dimensioni.

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Aspettavo la storia di un quadro millenario

Vedevo lo spettro nell’immagine
lenta, che rallentava gradualmente;
per un istante le figure si muovono appena:
case sullo sfondo, in un parco
bambini e famiglie, madri in maggioranza,
compiono le loro azioni.
In un pomeriggio di aprile –
dentro il quadro mia figlia e mia moglie
nel loro angolo, sedute sulla ghiaia.
Aspetto ancora un po’ prima di entrare,
ho il tempo di sperare che qualcuno
colga da un altro spiraglio il quadro,
che il tempo senza tempo si ricordi
in molti modi, senza nostalgia,
senza la mia stessa speranza,
nell’oblio di un ricordo che non può essere ricordato,
nella compassione lontana
di chi non ne sa parlare.

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Acquario

Passano le figure, inseguono gli eventi.
Ombre, i bambini trascorrono
in gesti, in un piede piegato o i passi.
Gli uomini impiegano il tempo
in frazioni strutturate,
il movimento ha passioni e dolori
e quadri che si aprono a brusii,
flussi trapassati, sorprese
negli scorci, membrane che respirano
le azioni compiute;
la giustizia si sposta nello stesso
luogo, si sgrana in tempi impercettibili.

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Zingonia

Un luogo cui fu offerta una promessa
rifiutata dal luogo; contingenze,
si narra, che portarono al grigio
delle fabbriche chiuse, ai primi freddi,
a una popolazione in affanno.
Oggi un attrito di odori ci accompagna,
le vostre difficoltà sotto mura incomplete
e sotto lo sguardo volatile di questo umile nord,
più tiepido, vibratile…
l’origami disegna gru, s’immilla.

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Zone recintate

I. La luce, peli pubici

Giorno, Peschiera, vista sul water
nello spostamento dei raggi,
il ritmo delle tossine dalle altre stanze,
inoculato a forza d’isolamento.
Archi, insenature pronte a capitolare
in crocevia imprevedibili solo adesso,
a scomparsa.
Aprendo scaracchi di lago al confine
risorge lo spettro lombardoveneto,
in mezzo all’evo che segna
passerelle e suoni del dopo fine.
Tutti accesi nel cielo pubico,
nel pelo luminoso sul bordo,
in bilico nel semibuio.

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Note

Acquario: quello di Genova nel 2013.

Zingonia: località in provincia di Bergamo dove ho insegnato nel 2012/2013, famosa per il progetto integrativo (zona industriale – area urbanistica) degli anni ’60. Il progetto non fu portato a termine, adesso Zingonia è una sorta di banlieu multietnica.
L’ultimo verso è un richiamo alla leggenda giapponese – una volta letta in classe – Tsuru no ongaeshi (La gru riconoscente); la gru ha valore augurale, soprattutto l’origami che la rappresenta, se ripetuto mille volte, potrebbe garantire la guarigione da ogni malattia. Mille gru per mille etnie.

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