l’Autore Racconta
Ecco i due volti, felici e sconosciuti l’uno all’altro. Quella felicità è concessa dal loro non conoscersi. Alludo al poeta e al lettore. Essi guardano il corpo del testo, lo assediano con una specie di misteriosa, aspra tenerezza. Insieme si ritrovano, richiamano l’attesa di un destino comune, che tu diresti al contempo «familiare» ed «estraneo». Il poeta è severo perché è dimentico di sé: in questo modo appare, allora, come uno e nessuno. Per questo motivo si nasconde, sceglie di ritrarsi: non è attaccato, vedi, a se stesso, ma tende, invece, ad accogliere e a scacciare, a contenere e a separare, ad accumulare e a disperdere. Non accetta nulla di ciò che ha detto o di ciò che ha scritto, e l’intera sua fatica è pari a una sorta di teoria della continua distruzione e della metamorfosi, dello stupore e della caduta inarrestabile. Il poeta, cioè, parla sempre e soltanto dell’inaudito e dello smisurato che non gli appartengono. La poesia rappresenta, infatti, il suo distacco dall’esserci. Il suo scopo è quello di invitare il lettore alla medesima danza nel buio; ed è perciò che poi si stabilisce una profonda, inaspettata unione tra chi scrive e chi legge. Ma questa unione, però, non la desideriamo, intanto; ed è per questo che noi siamo felici. La poesia ci ha guidato a ricercare la dolcezza severa dell’assenza («felicità, non t’ho riconosciuta che al fruscio con cui ti allontanavi…»). E adesso, vedi: se l’uno ci ha chiamato, l’altro restituisce qualche inciampo, e ci lascia una selvaggia forma di salvezza. Così, la forma degli eventi si mostra come un frammento dolce di spirale. Gli occhi, allora, si chiudono d’incanto e ripescano il suono che scivola nelle volute dell’ombra: le dita cercano la sola felicità soltanto nel mischiare le parti delle invisibili operazioni; non nel trovare il senso, il risultato. Un’opera poetica, dunque, dev’essere un gesto abnorme, impossibile; il più potente dei pensieri, forse. «Io fisso un punto dinanzi a me e mi immagino questo punto come il luogo geometrico di ogni esistenza e di ogni unità, di ogni separazione e di ogni angoscia. […] Aderisco a questo punto e un profondo amore di ciò che è in questo punto mi brucia fino a rifiutare di essere in vita per qualsiasi altra ragione che non sia ciò che è lì, per questo punto che, essendo insieme vita e morte dell’essere amato, ha lo splendore di una cateratta. E nello stesso tempo, è necessario denudare ciò che è lì da tutte le sue rappresentazioni esteriori, fino a quando non sia altro che una pura violenza, una interiorità, una pura caduta interiore in un abisso illimitato» (G. Bataille, La congiura sacra, tr. it. Torino 1997, p.123). Un poeta sa che il soggetto è, in definitiva, la parodia di una finta volontà. Il soggetto è un inganno: la realtà, invece, si muove nella funzione e nelle finzioni di uno specchio mobile e riverberante. La poesia, vocalità suprema che previene e amplifica l’eccedenza della vita, è l’unico strumento utile alla sopportazione e al disincanto. Essa desidera il dono di non desiderare nulla. Nel quotidiano affaccendarsi, invece, si registrano azioni «utili» e ragionevoli, grazie alle quali si vive per mangiare, si mangia per lavorare, si comunica per acquistare. La volgarità del Capitale è tutta qui: nella determinata consequenzialità dell’accumulo, nella corsa verso il possesso del traguardo, nella meta dell’accomodante ricomposizione, nell’acquisizione del consolante profitto. Al poeta non interessa ciò. Ma si badi bene: al poeta non interessa, infine, nemmeno la poesia (cioè, diremmo meglio: il gioco finto dell’ascoltarsi, il meschino narcisismo della letteratura). A un poeta interessa, soprattutto, tutto ciò che non si potrà mai dire né riferire.
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