Rossella Renzi, ‘Mani’, (peQuod 2025, disegni di Daniela Romagnoli)

Tornare qui a frugare
il respiro del mare
quell’eterno venire e ripartire
dell’acqua sulla sabbia il suo sfiorare
il verso del mondo senza memoria.
La culla degli insonni
il canto degli amanti.

*

Continuo a sognare la stagione
dove tutto resta immobile
sotto un velo ghiacciato. È Natale
il calore nel petto, una voce di donna
canta nelle mattine gelate
le arance appena raccolte e spremute.
Noi bambini a spaccare nocciole
seduti, eccitati per così poco
gli occhi spalancati davanti al fuoco.

*

Ecco s’è fatto giorno
e non so dire questo sentire
nessuna parola, non un canto
è il singulto dei morti
il soffio che spinge
allontana ogni cosa.

*

Sei la betulla, la casa piantata
nel tepore umido della terra
dove si inabissa ogni cosa.
Il ramo nodoso che ci tiene
il cavo di ombraluce per il seme
la pena per il tronco spaccato a metà
dove il tempo si annida in silenzio.

Palpita lento nel sangue, s’infiora

*

Scrivimi dell’acqua che sfiora il volto
della fiamma, del vortice del sonno
che danza, illumina a stento la stanza
la rugiada sulle tempie.

*

Ascolta l’eco della città deserta
qui vagano le anime di seta
in cerca dell’abito sfavillante
nuova vita al verbo della festa
un sussurro nel paesaggio di pietra.

Ma i petali ghiacciati della viola
si aprono al risveglio
e senti ancora la stagione
palpitare nella rosa fossile.

***

Cara Rossella,
il tuo percorso ha una direzione ben precisa, chiara, che mantiene collegamenti con le raccolte precedenti ma fa un passo in avanti in quel giardino/deserto che è la parola poetica. Vi ho ritrovato i «semi» e anche il modo tutto tuo di usare gli imperativi, con dolcezza ferma, come l’esibizione che le martiri fanno delle loro ferite: «Guarda le mie mani, ho rubato i semi / Volevo piantare il tuo giardino / Diffondere l’odore acre della terra / Una piccola aiuola senza gioia.»
(…)
La contemporaneità entra in punta di piedi in questi testi, perché sei tu che entri in delicatezza nel dialogo con il lettore, senza tracotanza di certezze o dogmi, ma anche senza balbettii… con la franchezza del verbo indicativo futuro: «Nessuno allora verrà salvato / se manteniamo la giusta distanza / mentre altre vite soccombono / tutti sordi in questo mare di pietra». E qui c’è anche una particolare forma di ironia sulla nostra «giusta» distanza, quando tutto è sovvertito e il nostro ossimoro permanente ha trasformato il mare in pietra. E per forza «in strada il poeta non canta più» (quasi un’eco del quasimodiano “Fronde dei salici”), sostituito dai «boati» che si sentono in notti per cui non sappiamo fin quando «avremo lume». Il simbolo della tua scrittura quell’ultimo gesto «del pianista», una vita – la nostra – che coincide con quel buio, con quell’oltre…

(Una lettera di Maria Luisa Vezzali)

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