Scrivere poesia. Per me è come scattare una fotografia e inciderci dentro alcune parole. È un modo per penetrare nel dettato irregolare di tutto quel che mi accade intorno. Realtà e immaginazione che si sovrappongono, che si radicano l’una nell’altra, e viceversa. Ricordo ancora il senso vasto di libertà che provai la notte che da ragazzo vidi in televisione un documentario su John Giorno, il poeta newyorkese, l’ultimo Beat come l’ha definito qualcuno. Tutti quei segreti e la devozione ai fantasmi e al buddismo, e poi le serate passate a recitare i propri versi, plasmarli sulla carta dei libri e nei dischi con la voce e i suoni, le magliette con le parole che si ingigantivano. Che uscivano dal pentagramma personale e intimo per straripare nel mondo reale. Quante potenzialità rispetto all’idea stantia di poesia accademica che avevo appreso a scuola, quando la poesia era noia e pedanteria, ripetizione a memoria di parole che non avevano più una presa diretta, che venivano salmodiate come una reliquia dagli spagnoli della Santa Inquisizione. La carne viva della poesia mia contemporanea mi pareva incomparabilmente più interessante, affascinante, rispetto a quel poco che conoscevo. E i poeti americani ben più vivi dei nostri vivi italiani. Soltanto i simbolisti francesi del Secondo Ottocento potevano reggere il confronto, mi dicevo allora.
Le prime prove, la lettura davanti a pubblici selezionatissimi, ovvero a quei pochi che si fidavano a venirmi a sentire, da solo ma ancor più in compagnia di altri scrivani come me. I primi libri, i primi entusiasmi, le prime soddisfazioni, le tante delusioni, gli incontri – spesso monchi, sconsolanti, disarmanti – con altri poeti, soprattutto quelli più chiacchierati, e quelli noti o semplicemente pubblicati dalla principali case editrici che si occupano anche di poesia. Le tante ammucchiate in versi, ai festival, nelle librerie, in manifestazioni di varia natura e dignità. Le redazioni di alcune riviste cosiddette militanti. Poi le ferite che nel tempo rimarginavo. Ulteriori prove. Ulteriori cadute. Incertezze. E questo muro talvolta invalicabile con la cultura maiuscola, quella di coloro che si intravede in televisione, che occupano le pagine dei quotidiani e degli inserti letterari. La constatazione che la mia generazione di narratori disprezza, per lo più, quella dei poeti, mentre al contrario, nonostante le tante defaillance e i narcisismi che inevitabilmente si presentano, la generazione di poeti di cui fa parte si nutre anche di narrativa. I pochi canali di comunicazione transitano le vie degli editori, di qualche blog letterario, e dei critici, che giocano spesso ad accorpare, a denigrare, ad elevare e a separare. Raramente ad unire, ad abbracciare, a comprendere.
Torniamo alla scrittura. A questa incessante sobillazione che ti scava dentro. Di cosa parlare? E come seguire l’impulso di prendere appunti quasi per qualsiasi evento la vita ti presenti? Manipolare la materia amorosa, oppure cercare di mettere ordine nelle letture che tanto arricchiscono le ore del giorno e della notte? Decifrare la natura? Decriptare i sentimenti e le contraddizioni che non riusciamo a comprimere, a guidare, a comprendere e ad addomesticare? Rivendicare l’ascolto e l’amore che non troppo spesso riceviamo? Rincorrere la popolarità della canzone e quindi tentare la via della rima o affidarci alla categoria rassicurante del classico? Farci capire, sforzarci di renderci abitabili, o seguire il fiume carsico delle sperimentazioni che ci appaiono come l’unica forma potenziale di autenticità e di libertà massima? Assoluta?
Il percorso può essere molto breve. Ci sono poeti che trovano forma e respiro agli esordi, magari giovanissimi. Oppure può essere lungo e travagliato. La maturità in questo caso si dimostrerà campo di individuazione di una forma più riuscita. E nel mezzo ci sono tutte quelle esperienze che è d’obbligo, o meglio, d’auspicio poter consumare.
La lettura è una di queste esperienze fondanti e formative. Quelle centinaia di voci, quelle migliaia di libri che andremo a sbirciare, a divorare, a digerire o a maldigerire, serviranno tutti, una ad una, per chiarirci le idee e altrettanto per confondercele, con maggior pregio per queste ultime eventualità. Sono i poeti e gli scrittori che ci fanno rimettere in gioco che dovremmo ringraziare, più che non quei poeti che fanno o hanno fatto cose simili alle nostre e che quindi ci paiono rassicuranti e confortanti. Ma può essere una transizione complessa e dolorosa, accettare e accettarsi sono d’altro canto le fatiche che ci impegnano a fondo. E non sempre ne usciamo.
Per quanto mi riguarda i poeti che ho abitato sovente sono voci tradotte da altre lingue, dall’inglese in primo luogo. Gli australiani Les Murray e Dorothy Porter, il caraibico Derek Walcott, una lunga e folta truppa statunitense, ma anche il cileno Pablo Neruda (mi scuso per l’ovvietà), la polacca Wyslawa Szymborska, il russo in esilio Josif Brodskji, gli inglesi del primo Novecento quali Eliot e Auden, e quelli del secondo, Ted Hughes in testa. Nei francesi dei nostri tempi fatico a rinascere. meglio negli italiani anche se non saprei bene chi indicare come poeta portante, al di là di simpatie anche personali che mi legano a Mariangela Gualtieri e Giuseppe Conte, ai vernacolari, ad alcuni coetanei che abitano anzitutto l’Emilia Romagna e la Lombardia.
Poi sono arrivati i viaggi che mi hanno condotto lontano, parecchio lontano dalle stanze che abitavo di solito, dalle strade che iniziavo a conoscere, dagli spazi abitati e luminosi che attraversavo. Sono arrivate le densità del sud est asiatico, sono arrivate le torri Eiffel e i musei Dorsay, sono arrivate le vastità a perdita di fiato dei cieli statunitensi. E lì ho incontrato le ombre delle prime sequoie millenarie. Lì è sbocciato il concetto di Homo Radix che ha cambiato la mia piccola vita. Sono arrivati libri in prosa, sono arrivate tutte quelle soddisfazioni e quelle aperture che con la poesia non avevo avuto modo di assaporare. E con loro altri e più viaggi, boschi sperduti, alberi cavi dentro i quali piangere e gioire. Letture che mai si sarei aspettato di fare. Libri anche di altre epoche, redatti con passione certosina da solitari forestali delle Montagne Innevate della California piuttosto che saggi botanici, resoconti di nuotatori che attraversano un’Inghilterra d’acqua. La poesia riemerge sempre nel mio sguardo, nella prosa come nella fotografia che si attesta sul bianco e nero. Sento vivo dopo anni di osservazioni le parole di Sebastiano Salgado che sostiene di non aver bisogno del verde per raffigurare gli alberi. È una visione che ho fatto mia anche in poesia.
Poesie da Un quaderno di radici, Feltrinelli, Milano, 2015
AUTORITRATTO INVERNALE
A dicembre gli uomini radice
perdono l’uso della parola,
radicano sul pc e invecchiano
fino a primavera.
Spinano mani e bocche,
nutrono i corpi di terra nera,
abitano la carta e la penombra.
A marzo perdono la testa
e rinascono sulle ginocchia.
Non è certo che siano morti
o risorti nel paese dei natistanco
STORIA D’UNA LINGUA DI VETRO
Non tanto
la fatica del sudore
tolto alla fronte,
non tanto
i capogiri dei coltelli
in cucina,
piuttosto
la luce fioca
dentro la nebbia,
piuttosto
i pomeriggi al tepore
sotto le coperte,
piuttosto
le carezze ai gatti
sopra le ginocchia.
Non tanto
i litigi fiaccati
graffiando i soffitti,
piuttosto
il silenzio degli occhi
che si fanno stella,
non tanto
il peccato che dilava
dal di dentro,
piuttosto
il riverbero della notte
che si spiaggia,
non tanto
la marea di scatti
che si rinnovano a cascata,
piuttosto
la fragilità presunta
delle fondamenta:
la lingua è una creatura
che sa indietreggiare
a occhi chiusi
I LUPI
L'uomo che insegue
a tutti i costi la libertà
si trova di fronte ad un bivio:
odiare l'umanità intera,
oppure finire a mendicare
il giudizio di altre persone,
come fa chi è stremato
dai lupi della fame
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