Su “Claritas. Il darsi della luce in María Zambrano” di Antonio Bergamo

Nel tempo dell’Antropocene, in cui la crisi ecologica e simbolica dell’umano è diventata non più solo diagnosi ma condizione strutturale, non servono pensieri forti o nuovi sistemi. Serve, forse, un gesto. Un gesto che restituisca continuità tra vita e pensiero, tra esperienza e riflessione, tra ferita e parola. È ciò che tenta Antonio Bergamo nel suo Claritas. Il darsi della Luce in María Zambrano, pubblicato da Città Nuova.

Ma attenzione: non siamo davanti a un saggio di filosofia della religione né a un esercizio di esegesi zambraniana. Claritas è prima di tutto un esperimento di pensiero incarnato, e insieme una proposta: ripensare l’umano a partire dalla luce. Non la luce dell’illuminismo né quella della manifestazione intesa come dominio del vero, ma quella che si dà nei “chiari del bosco” — gli interstizi della selva, dove il cammino si interrompe e qualcosa accade. È la luce mite, mai lineare, che emerge quando ci si ferma e si ascolta: il simbolo di una forma del conoscere che non impone, ma riceve.

Prendendo sul serio l’intuizione poetico-filosofica di María Zambrano, Bergamo costruisce un percorso che è anche una contro-narrazione: contro il pensiero riduzionista, contro l’economia del sapere come potere, contro ogni dualismo tra ragione e corpo, tra verità e vita. La claritas diventa così figura di una postura epistemica diversa, che riconosce nella relazione — e non nell’astrazione — il luogo proprio del significato.

Ciò che colpisce nel libro è la capacità di trattenere la complessità senza appesantirla. Si parla di teologia, ma senza chiusure dogmatiche. Si parla di filosofia, ma senza alcuna tentazione accademica. Si parla anche di psicologia, soprattutto nei passaggi in cui viene problematizzato il concetto di emozione come costruzione relazionale e linguistica (in dialogo, ad esempio, con Lisa Feldman Barrett). Ma il punto non è la multidisciplinarietà — ormai inflazionata — quanto piuttosto la coerenza di un gesto: quello di restituire all’umano la sua densità interiore e simbolica.

Il cuore della proposta è chiaro: servono nuove forme per dire l’umano. E queste forme non possono che nascere in uno spazio intermedio, in una “radura” appunto, dove il linguaggio non è né puro concetto né sola espressione, ma tensione viva tra parola e silenzio. La claritas è, in questo senso, il nome di una verità che non coincide con la mera trasparenza, ma con la possibilità di entrare in risonanza con ciò che è. Non si tratta di sapere tutto, ma di sentire dove siamo, di riconoscere la qualità del nostro abitare.

Ciò che Claritas cerca — e in buona parte riesce a offrire — è una nuova antropologia relazionale, capace di pensare la persona non come individuo isolato né come nodo funzionale di reti sistemiche, ma come soggetto situato, vulnerabile, narrativo. Un soggetto che si costituisce nel rapporto, non nel controllo. E che ha bisogno, oggi più che mai, di pensieri che non lo sezionino, ma lo ascoltino.

Nella crisi di senso che attraversa la nostra epoca — tra l’iperspecializzazione delle scienze umane e la retorica del benessere spirituale — Claritas si muove con discrezione, ma lascia traccia. Non offre certezze, ma gesti concettuali. Non soluzioni, ma immagini: il chiaro nel bosco, la luce che non abbaglia, la parola che sorge dal silenzio.

È poco? È moltissimo. Perché forse, come suggerisce Bergamo, la vera resistenza oggi non è affermare, ma sostare. Non spiegare, ma ricevere. Non dominare, ma lasciarsi toccare. Pensare, insomma, non più per possedere, ma per abitare.