Una primavera all’inferno di Silvio Perego costituisce una prova di scrittura lirica assolutamente interessante per il tema estrinsecato in efficaci, originali, correlativi oggettivi espressivi. Il titolo, riecheggiando Rimbaud, si riferisce al nuovo corso drammatico di eventi dei Paesi dell’Africa settentrionale dove si spera in una primavera politica, etica e sociale, in un intreccio di speranze e delusioni, salvezze e condanne, sangue e sacrifici: una primavera ossimoricamente definita “infernale”, per il poeta che, al di qua del Mediterraneo, tenta con simbiotica compassione di oltrepassare, col verso, la superficialità dei messaggi massmediatici che giungono quotidianamente.
(Nota introduttiva di Giorgio Taffon)
La poesia di Silvio Perego è opera umana, e opera «postuma», testimoniale, nutrita di una cronaca che, attraverso la scrittura, transita, plasmandosi, dall’essere circostanza vissuta al porsi quale mediata cristallizzazione memoriale; ed è una poesia che, se attinge a una dolente – forse altrimenti, con medesima vis perentoria, inesplicabile – contemporaneità, non è distante da certa poesia civile degli anni Settanta, dalla stessa canzone impegnata di quegli anni – cui sembra guardare nel suo modellarsi di stilemi e di strutture.
(Uno stralcio dalla Prefazione di Matteo Mario Vecchio)
Cinque poesie da Una primavera all’inferno, collana La cicala diretta da Dante Maffia.
(Lepisma Edizioni, 2015)
Il nemico alle porte
il nemico è ancora alla porta
di questa casa disgraziata
infame
pencolante
alla porta di questa mia casa
trasformata in inferno,
prigione,
tomba
dove non basta serrare le inferriate
per lasciarsi tutto fuori
tutto dietro le spalle
e difendere la vita
questa vita
con la voglia di vivere
il nemico è alla porta
salirà le scale
e verrà a prendere il mio sacrificio
le mie lacrime
salirà su
per levarmi le speranze intatte da sotto le unghie
e il sangue
che gronda e chiede pace
ormai è qui,
il nemico bussa alla mia porta
La situazione è fluida
la situazione è fluida
non c’è nulla da temere
tutto si può sistemare
basta stare con la testa tra le mani
e correre tra una bomba e l’altra
le bombe umanitarie che cadono come pioggia
da questo cielo azzurro di primavera
fa niente se nessuno si scusa per le vittime civili
e se i cecchini sparano sui bambini
la situazione rimane fluida
così fluida
che scorre via che è un piacere,
un dolce piacere ingeneroso e pallido
che scorre verso la vecchia megera senza denti
con il foulard nero
in testa
senza motivi particolari
perché non c’è niente di meglio da fare.
23 marzo
tutta la gente è con noi
non abbiamo paura
e tutti possiamo pregare,
sventolare le nostre bandiere
e ridere dei missili
i vostri missili
ridiamo sui vostri missili
rido dei missili
sulle nostre teste
e alla fine vinceremo
niente mi fa paura
nessun tiranno mi può spaventare
io sono il tiranno e
posso solo avere paura di me stesso
Memoriale dei sopravvissuti
adesso che abbiamo sepolto i nostri cari
curato le nostre ferite
e abbiamo cancellato dalle mani
i nostri messaggi di aiuto
che nessuno ha letto
e certi che nulla tornerà mai più come prima
anche se non c’è mai stato nulla,
non possiamo più fermarci
torniamo in strada
e camminiamo insieme
verso un futuro irraggiungibile
un futuro che è adesso
un futuro dove potremo ridere davanti ai sepolcri
davanti le tombe da andare a visitare.
Il muro
le azioni incerte. le parole inutili e timide
gesti abituali
l’attesa di ore per raggiungere la scuola
un cancro nelle vene
un fiume di cemento che non attenua
i danni irreparabili del filo spinato
le anse, gli zig zag
e le grandi nuvole
che sovrastano il muro di annessione
nulla possono
e scriverci sopra le proprie angosce con lo spray
a nulla serve
nè i paesaggi alpini di Banksy
né le palme
possono ridare il senso soffice della libertà
è incredibile
ma è questo il posto dove vivo
schiavo del mio tempo
e della mia città.