Uno sguardo che centra la realtà: la poesia di Roberto Minardi

cop roberto minardi

La città che c’entra (Zona, 2015) del ragusano Roberto Minardi, classe 1977, è uno di quei libri che ci ricordano come interagisce la creazione poetica a contatto con il reale che la circonda. Essendo naturaliter impossibile oltre che infruttuoso definire ‘cos’è la poesia’, come lo è altrettanto ridurla a un mero genere letterario («la carne è triste, ahimé! E ho letto tutti i libri»), questa raccolta di Minardi ci dice già dalle prime battute che l’ambito della poesia coincide con uno sguardo lenticolare sulla realtà che si riversa in una scrittura sorvegliatissima e millimetrica che spera «di abbracciare / la somma delle scene che fuggono, respirano, / mentre tentiamo di non perder l’equilibrio» (Nel pubblico trasporto).
Se il testo d’esordio ha l’aria dell’osservazione solitaria di un entomologo nel chiuso del suo laboratorio («Il grillo sembra aver scelto di passeggiare / sul braccio della panca, al limite di un solco / di ruggine»; Parco), l’identificazione nel testo successivo, Balconi, tra il soggetto poetante e «il gatto dei vicini / [che] muove la coda da una parte all’altra» poiché «di entrambi si può dire / che guadagniamo tempo», è indicativa della ‘poetica’ di Minardi, la quale dietro l’ironia sorniona di uno sguardo felino cela ben altri intenti: «La ragione per l’arte – e qui il gatto non c’entra – / è di volerti suggerire, in breve, / qualcosa sullo smarrimento o anche / sugli attimi struggenti che sconfessano / il debole che abbiamo per la terra». La prima delle quattro sezioni in cui si articola il libro è non a caso intitolata Nel pubblico trasporto; scelta, questa, che, se alla lettera rivela il gioco ludico con il sema della città, da una diversa angolatura mette a nudo la ricerca (quasi una preghiera criptata) di qualcosa che metta in cammino il fondo più vero dell’essere uomini, di quella forza a cui abbandonarsi, e dalla quale lasciarsi trasportare, che si palesa appieno solo nel momento della condivisione ‘pubblica’. «È l’eleganza della luce che conta, lo stupore / che provocano i fasci quando sfumano; / per luce intendo anche i salti che fa il cuore», si legge infatti ne La traversata.
Dopo lo spazio en plein air di una metropoli volutamente innominata, ‘globale’ nella sua estensione metaforica, l’io poetante nella seconda sezione, E vissero, sembra dismettere i panni del flâneur (Il ciclo delle passeggiate) a vantaggio de L’uomo che rientra «verso un portone bianco / perché all’interno c’è un appartamento: / un territorio a noleggio […]. / Sulla tendina della finestra / ondeggia un’ombra elegante e il mio cuore, / di certo infantile, accelera il passo». Ed è proprio a questo punto della raccolta che emerge una realtà quotidiana, feriale, che più sembra assurda nella sua insignificanza più si ammanta di un nuovo, inaspettato senso: «Com’è che dall’assurdità riusciamo / a ricavare certi motivetti?» (Dopo i tornanti). È una quotidianità che la scrittura di Minardi prova a scardinare mostrando il rovescio della medaglia, ovvero quanto di irripetibile si annida ne La compostezza delle nostre scene, dove nel chiuso di un caldo ambiente familiare si ripropone il «rituale delle sere» in cui «ci raccontiamo com’è stato / il giorno che è appena trascorso / per sempre; è il nostro bene è lì, rivive». Al centro di questa sezione si colloca, ben visibile, un passaggio dalla prima persona singolare alla prima plurale: «Ed è con questo genere di musica / che si alimentano i nostri motivi» (Nell’ordine del blu ma anche dell’ambra); «Insomma tutto cambia pelle quando / noi non c’entriamo niente con il tempo» (Il palloncino manca); quasi a voler indicare l’avverarsi nonché il culmine di quella ricerca di un’esperienza condivisa avviata nella sezione precedente.
Da questo punto in poi, cioè nelle restanti ultime due parti del libro, La rivoluzione non si farà e Prima di diventare padre, come a segnare uno spartiacque che divide il libro in due metà speculari, il tono riflessivo-speculativo di Minardi si aggrava di immagini e scenari fisicamente e concettualmente più disturbanti: basti dire che il solito flâneur/rientrante, a questa altezza, si cimenta in un’Escursione in cui «giunge un puzzo di fogna e la malinconia lo assale». È soprattutto l’asprezza di alcuni dettagli a caratterizzare il nuovo ‘paesaggio’ poetico nel terzo raggruppamento di testi: «il guano di un uccello si interpone / fra il fieno arrotolato» (Seconda classe); «la mestizia di oggi assomiglia / a una lattuga malridotta» (La strada dei fruttivendoli); «L’odore del sudore esala, / è dolce perché è naturale, è base / dello scenario attorno: / un tronco marcio, impallidito, / al centro di un terreno arso» (La tratta); «mulinando attorno allo scolo / sopra un letto di schiuma verdastra, / il cadavere di una zanzara» (Con il polline arriva la smania). Mentre nell’ultimo atto della raccolta la scrittura di Minardi si addensa, a dispetto di alcuni componimenti dall’incedere ritmico-sintattico fluviale che sembrano girare su sé stessi, senza cioè convogliare in un centro, come in un labirinto da cui è impossibile uscire: «ma si torna col punto a capo / dovrà esserci pure una fine / tiritera che il vento ci porti / come simbolo che sfascia i ciuffi / futuri, ora è il tempo / dove tutto convive a accavalla» (Tornando al discorso).
Le situazioni quotidiane, anche in questo frangente, paiono incupirsi, lasciate come sono a un’«unica gloria da immagazzinare, / coronamento di un tempo morto» (Commedia al caffè), nella consapevolezza che «è così / difficile accettare dei miracoli» (Prima di diventare padre), approdo finale del percorso poetico (e umano) di Minardi. Un percorso di certo non rettilineo e non in discesa, ma sempre sostenuto dall’onestà di una scrittura in versi precisa, mai ridondante o banale, e dalla verità di uno sguardo che del reale sa cogliere le sue zone di abbacinante luce come di disperante buio.

 

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