La poesia è una di quelle piste impossibili che cerchiamo sempre nella mappa sbagliata e nel mondo sbagliato; o una specie di cantina per soli naufraghi che si anima a intermittenza, a certe ore della notte: tutte le cronache sul suo conto tradiscono il patetismo inconfutabile dell’ubriaco, specialmente quando dichiarano di raccontarla neutralmente, con nitidezza di categorie. C’è chi la vede abbarbicata a una roccia aerea, come il Castello dei Pirenei; chi la scopre al mattino rappresa sotto le unghie, come avanzo strappato alla terra nell’agone del sonno; e chi si accontenta di significarla con la pagina bianca, distinguendone il profilo potenziale dietro la superficie, per speculum et in aenigmate. La verità, se esiste, è assai più scivolosa: anche quando parliamo della poesia per diretta esperienza, non facciamo altro che nominare il nostro desiderio di lei. Forse la poesia è quel che resta del linguaggio – poco: paesaggi sfondati, travi combuste – quando l’urto con la poesia si è consumato.
Ma anche così essa è un’arma: è un’intera flotta in assetto di guerra, nonostante oggi la taccia d’ingenuità penda come una spada di Damocle sul capo dei poeti armati, e lo iato che separa il sì dai no sembri aperto senza scampo. Destreggiarsi fra una tradizione letteraria coraggiosa come la nostra e il paradigma presente, fra la parola che loda e quella che irride, è un’impresa per funamboli. Eppure non dovrebbe esserci una profonda differenza di valore tra il poeta che dice il niente e il poeta che non dice niente? La facoltà di tornire il vuoto con le dita, sia pure in forme provvisorie e castelli d’ombra, non basta a confermare che i poeti – come sosteneva Shelley in A Defence of Poetry – sono i «misconosciuti legislatori del mondo»? Che dietro l’ossessione di realtà di una certa poesia non si nasconde maturità di visione, ma mitofobia, rifiuto o riconoscimento parziale della vita? Sarebbero ancora tanti i giovani che si portano dietro versi e canzoni come orologi da tasca col quadrante infranto, se quei versi e quelle canzoni non potessero arrestare tutte le corse, tracciare templi dov’erano stazioni?
Forse sarebbe il caso di avventurarsi, scambiare soltanto per un’ora fragilità e fierezza: concederci il lusso di essere veri, o addirittura vivi; giocare a una fede che coltiviamo da anni in soffitta, e che non possiamo più scollarci di dosso senza rimetterci la pelle; sentire che l’apostrofe di Yves Bonnefoy ne Les planches courbes non è rivolta a lei, ma a noi: «Ô poésie, […] Je prends le risque de m’adresser à toi». «O poesia, […] Oso rivolgermi a te.»
Sette poesie scelte da “Vangelo Elementare” (Raffaelli, 2015)
V.
Ed eravamo soli all’improvviso
da sempre – sentivamo risalire
dentro le vene i fiumi della terra.
I tuoi occhi cantavano. Eravamo
murati vivi, al buio, nella luce.
La notte sa se nel buio profondo
noi pensavamo al mondo che dimentica
(noi non più ardenti di incoscienza, noi
non ancora perduti).
Eppure non ti abbiamo conosciuta:
eri un rogo, eri un coro, eri l’istante
in cui ciascuno dà l’addio a sé stesso.
I tuoi occhi cantavano. Incidevi
strane equazioni dentro il nostro cuore.
IX.
Erano le giornate
che il buio si addensava in forme ostili,
maturava sul fondo degli stagni
(forme ancora disfatte, potevamo
scambiarle per ammassi di girini);
ma erano le giornate senza evento,
che vedevamo insorgere
parole dentro aloni di lanterne
(forme così compiute, potevamo
scambiarle per spettacoli,
ignorarne il carattere marziale).
X.
Che cosa chiameremo l’essenziale
di quella strada che imboccammo a caso?
di questo sogno che trovammo in sogno?
Che cosa di quel nostro pedinare
il gergo della luce sulle pietre
nella speranza che la luce a un tratto
si decodificasse?
A noi quel sogno simulava tutto,
replicava i paesaggi, gli alfabeti,
le sue rare eruzioni di concetti
(brancicavamo nudi dentro un sogno
che non era mai il nostro, stropicciandoci
le mani come un torto);
eppure sugli stagni
dove ci fermavamo nei mattini
intesi al freddo delle rive
qualcosa insorgeva, quasi un’anima
improvvisa, sommersa:
giustificava tutto.
XIX.
Ma tornavi ostinato ad ogni soglia,
padre – a noi, quasi fossimo un diritto.
E poi ci sorprendevi dentro il fango,
di ogni cosa chiedevi la ragione.
«Quale ragione, padre, – pregavamo
noi nudi, – se non siamo
venuti che a ripetere la vita?»
O quando rannicchiati
facevamo la camera più vuota
dei nostri corpi –
e poi ti vedevamo
allontanarti in noi, precipitare.
XXVII.
Ti chiamavamo luce appena umana,
se con i corpi prendevamo le onde
simili all’acqua che attraversavamo
(ma più sottili, bianchi come i ciottoli):
e tu guidavi al largo le nostre trasparenze –
se l’acquazzone, luce,
sfrenava i rami lungo le paludi
dove eravamo entrati per amore
(noi per quelle paludi troppo chiari):
e tu portavi le paludi al sonno –
se poi però piangevi la tua altezza
sui nostri corpi, luce appena umana –
se poi morivi sulle nostre bocche.
XXXIII.
Qui dev’esserci stata la battaglia
soffocata nell’acqua, qui le case
di fortuna, la lotta corpo a corpo
con i sopravvenuti:
speravamo
nel gesto che ci avrebbe estorto il sangue
senza pietà (così da capo a piedi
riaverci vivi) –
madre del martirio,
salute a te, piena disgrazia, stremaci
le braccia e le ginocchia, non rimanga
nient’altro della notte che le stigmate
sui corpi, sotto il transito del sole.
XXVIII
L’opera della luce sugli stagni
erano segni, rime elementari:
così al nostro comando si accendevano
quando vi passavamo a torso nudo;
era il linguaggio mai perfezionato
che la notte tentava con se stessa –
come mani quei segni ci assalivano,
esperte, a tratti quasi creaturali,
a tratti un corpo solo si tendeva
tra i nostri corpi tesi.
Poi di quel moto perdevamo il senso
nell’acqua alta – tornavamo a riva.
Ma era pioggia dirotta ormai da giorni.
Non avevamo tempo per capire.