“Verso la foce” di Riccardo Canaletti: “Una ripartenza. Più degli altri libri, il profumo della mia anima”.

tre domande, tre poesie

 

Nei versi di Canaletti (qui forse più che nei precedenti libri) possiamo cogliere le tracce di un ermetismo ungarettiano, quando ogni parola, e solo la parola, nella frammentazione della realtà, consente di rinominare il mondo, riappropriandosi di tutta la sua forza evocativa. Ma la sua rimane una lingua onesta, perciò viva. Perché sa che questo mondo / sarà leggermente / diverso per me. E ciò è detto senza alcun accenno di ideologia. Non c’è un “altro” mondo utopisticamente sognato, c’è questo in cui tutto, a dispetto di tutto, si muove per legge naturale. Quando conobbi Riccardo, la sua autentica passione mi apparve una promessa di talento, che oggi riconosco ampiamente mantenuta e che non può che preludere ad altre luminose prove.

(dalla Prefazione di Nicola Bultrini)

 

Pariamo dal titolo: qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “Verso la foce”, meglio: in che modo la (tua) vita diventa linguaggio?

Verso la foce è anche Dalla foce, è una ripartenza. Quando ero piccolo ricordo i disegni del ciclo dell’acqua, che saliva dal mare in cielo, si spostava sopra le montagne, si formavano le nuvole, l’acqua cadeva, imbrattava (erano piccoli puntini azzurri) il prato o si gettava nel fiume, e il fiume la portava di nuovo al mare. La foce, indicata con una freccia in grassetto, sembrava particolarmente rilevante al tempo. Negli ultimi anni ho raggiunto una foce, per capire che lo sforzo sarebbe stato, in realtà, risalire fino alla sorgente. Avevo due strade, lasciare che il ciclo, naturale, mi portasse nuovamente dal mare al cielo, dal cielo alle montagne, dalle montagne al fiume, o tornare indietro contro la corrente del fiume. Se nella vita, nel lavoro, fuori dalla poesia, ho quasi l’obbligo morale di dover risalire la corrente, nel libro ho preferito assecondare quella parte di me più autentica, senza impalcatura. Per cui ho scelto il ciclo naturale, mare-cielo-montagne-sorgente; e di nuovo fiume e foce. Ho scelto, in altre parole, di accettare ciò che avevo nel momento in cui scrivevo, saldo nella speranza di possedere, oltre al bene presente, la promessa di poterlo preservare anche in futuro. La gioia, questo dono fuorimoda, è ciò che rende la mia esistenza “vita”. Non so se la mia vita sia diventata mai linguaggio. So per certo che il linguaggio è un aroma, un modo di presentarsi al mondo. Verso la foce è, più degli altri libri, il profumo della mia anima.

Ad oggi, dove sei stato condotto dalla poesia, qual è stato l’insegnamento, la poesia è un destino? 

Sono tre questioni difficili. Uno degli elementi fondamentali del destino, per me, è il fatto che sia imperscrutabile. Io possono sapere di avere un destino e ipotizzare la destinazione, ma solo perché percepisco la vertigine insita nel linguaggio, nel camminare iniziando a leggere finalmente le indicazioni stradali. Ma non so a cosa io sia destinato. La poesia è destino? La poesia ne fa parte, ha un valore strumentale. La vita è un destino, la poesia un paio di scarpe da corsa (ma uno può scegliere di indossare la musica, la scienza, la cucina, l’insegnamento, la vendita al dettaglio). La poesia non è certamente più nobile di qualsiasi altro impiego. È solo il modo in cui la mia intelligenza si mette d’accordo con il mio cuore.

Le parole bastano alla poesia?

Sì. Inequivocabilmente. La poesia è parola, il resto è addobbo. Se con la poesia vuoi convincere allora ci metti dentro la musica, la performance, le immagini, quel che ti pare. Ma per quello che mi riguarda la poesia non è uno strumento di persuasione, se si vuole raggiungere uno status meglio dedicarsi ad altro. La poesia è masticare la propria vita. In fondo nessuno vorrebbe che gli altri lo fissassero mentre ingurgita del cibo, no?

 

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare tre poesie dal tuo libro. Di queste scegline una per condurci a ritroso nel tempoa prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere (nel contesto del libro che l’accoglie).

Ho scelto una poesia dalla prima sezione e due dalle altre. Questo libro è dedicato alla mia ragazza, Jessica, ed è un libro d’amore. Ma l’amore non è come la corrente, non esiste un interruttore, preesiste e persiste, per cui non avrei potuto parlare di lei senza parlare anche della mia famiglia, di casa nostra, del nostro paese e di Bologna, dove oggi viviamo. La prima poesia è tratta da Sostanza lieve, una breve suite scritta in una notta, quando ho scoperto che mio nonno aveva l’Alzheimer. Questa sezione precede e gli altri testi e il libro di anni. La seconda è dedicata ai miei genitori e a un quadro che mio padre dipinse quando nacqui. La terza è per la mia ragazza, a cui appartiene la mia vita.

*

Tra i bancali al porto
(m’immagino una volta ancora
il montacarichi
e il trans-pallet blu
cobalto)

m’insegnavi i venti.

Lo scirocco del tuo alito.
La brezza dei tuoi movimenti.

*

Essere un uovo in un prato
cioè un bambino
che corre tra l’erba.

È facile essere un uovo
e rompersi.

O così sembrare
in controluce all’occhio
che solo una madre.

Sono nato a novembre
e mio padre mi dipinse
come un uovo al centro
di un campo senza stagione.

*

Ingresso dello scavo con la parola.
Nella voce di tutti sotto la spera
dove festeggiamo Silvia
è dolce addormentarmi
con le tue mani sul viso.

Le ruote della mia auto
riposano nelle buche
i rumori si acquietano.

Ma all’orecchio che ospita i gesti
e il tuo gioco
non può che arrivare saperti
lo spazio intero
in cui ha foce la vita.

Riccardo Canaletti (1998) ha pubblicato due raccolte poetiche, La perizia della goccia (2017) e Sponde (2019; premio Pordenonelegge 2020). Si è laureato in Storia della scienza all’Università di Bologna, fa parte della redazione di MOW e scrive per le pagine culturali de Il Foglio, Il Giornale e La Ragione.

 

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