Vivere: manifestarsi esponendo la nudità che imbarazza la mente

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Notturni

Nella possibilità di esprimere il significato tramite la parola vi è un miracolo. La parola stessa è un miracolo. Quante parole che sentiamo, quante ne usiamo ma raramente ci soffermiamo sul prodigio che dalla mente si trasmette alla gola. Lì dove la parola è pronunciata sentiamo che un confine è stato tracciato. Il verbalizzare un’idea, il chiamare per nome una cosa, definisce l’oggetto, definisce l’idea. Con un solo passo possiamo renderci conto che la parola è davvero poco distante dalla definizione, dove la parola stessa è il confine. Ovvero, confine e parola sono affini.

Definire qualcosa significa tracciarne i confini e dunque porre un giudizio su ciò che essa palesemente è e su ciò che non è, per la nostra mente. La parola è quindi un giudizio, un fatto nato con la morte, non nel senso cristiano, di un’idea, perché, quando la parola è esposta, l’idea è stata comunque giudicata. Coloro che sono abili utilizzatori delle parole – che le pesano nel senso mentale e pratico attinente a ciò che è ritenuto utile per sé, per sopravvivere come l’ego gradisce – le usano coscienti del potere (il più effimero) che portano con sé, quello di dare un giudizio (un giudizio inferiore, certamente). Così facendo, diventano messaggeri non di solo giudizio, ma, attraverso questo, di morte. Una morte che, dico chiaramente non è la morte fisica. In linea generale questo comportamento riguarda tutti noi ma in maniera estrema alcuni.

Perché lo fanno? Opinione comune, non certo solo mia, vuole che il motivo stia innanzitutto nel distinguere ‘questo’ da ‘quello’, anche in maniera palesemente disonesta – leggi volutamente ignoranti della logica deduttiva – e volta segretamente, talora persino rispetto alle loro innocenti coscienze, a creare quegli spazi ideali nei quali si vorrebbe collocare la reputazione della propria persona nel mondo sociale, o il costume del proprio personaggio, indispensabile alla comunicazione diretta e all’espressione. Ma siamo ancora in superficie. Il giudizio è l’anticamera della morte. Per questa ragione le due cose simbolicamente sono rappresentate affini. La morte è senza dubbio necessaria alla vita, stabilendone inizio e fine, quando morte e vita sono in sano equilibrio tra loro. La vita inizia con la morte e attraverso una nuova morte si rinnova.

La smania di vedere, di toccare tutto, di ridere di tutto, di cambiare e ricambiare ogni cosa, è il desiderio di uccidere l’incessante richiamo interiore della verità, che vuole essere trovata nel cuore di ogni individuo, il quale invece si distrae nella manifesta attenzione che si rivolge con i sensi (in atti privi di significato profondo)  e riduce a lamento impercettibile il richiamo alla vera vitalità. Questa smania delle persone di parlare è la caduta verso il terreno, dove quest’atto s’intende come tendenza salvifica dell’Io, riparo dall’incerto che non ci permette di assumere una posizione. Come arresto dell’evoluzione e dunque sospensione del dolore, come evasione dall’indefinito che è, nostro malgrado, il viatico unico per trovare una nuova definizione di sé una volta abbandonata la vecchia. L’evoluzione comporta sempre dolore perché la crescita o la decrescita sono cambiamenti e, come tali, dolori. In fondo, ciò che davvero ci fa paura del buio è il non poter stabilire in quale punto siamo rispetto a ciò che ci circonda.

Ciò che era prima non si riconosce automaticamente e senza sforzo in ciò che è ora e in ciò che sarà poi; così la mente sarà costretta a rivedersi, a conoscersi per riconoscersi, o, se la coscienza che la guida non saprà agire, a disconoscersi, a ignorare tutto di sé. Resterà così a fluttuare nell’Ade, nella dimenticanza, nella follia che non riesce a stabilire chi essa sia e, quindi, in quel nulla che sta prima della vita e dopo la morte ma non siede né con l’una né con l’altra e non ti permette di essere niente. Ti costringe ad assistere all’essere nulla.

Così il giudizio, in ogni dove ricercato, è desiderio di morte; non di morte nel senso di cambiamento, e quindi in senso vitale, bensì nel senso di annullamento del progresso. In molti pensano e agiscono come se non fosse possibile trovare la Vita quand’è passata l’illusoria vita rappresentata dalla gioventù, estratta dal ciclo completo e in questo modo privata del significato proprio.

 Vivere vuol dire manifestarsi ma quest’atto richiede esposizione e la nudità imbarazza la mente. Così, per pudicizia, vergogna, la mente si copre; in altre parole preferisce la vaghezza alla chiarezza della propria finitudine. Un desiderio di eludersi così palese, e difficile da nascondere, da creare negli uomini e nelle donne l’ossessione di rifuggirne manifestamente attraverso l’estetica, attraverso comportamenti che seguono cliché e forme ritualistiche del buon gusto, attraverso il contatto fisico sopra quello intimo; o, da altre vedute, rudi atteggiamenti che escludono la percezione del senso e della delicatezza del momento, come l’ossessione per il fotografare e riprendere ogni cosa rendendola estremamente finita, e rendendosi sciocchi ma giustificati dalla moda del momento! Queste e altre cose, tantissime, alcune antiche e altre moderne, hanno lo scopo occulto di convincere se stessi che si ami la Vita – per quel fastidioso senso di responsabilità verso qualcosa d’indefinito che sembra avere a che fare con il nostro esistere – quando invece essa è la cosa che odiano ostinatamente di più.  Amano la vita finché sono giovani e giovinette, perché in realtà non l’Amano per nulla.

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