Copertina_Un esilio perfetto

La poesia è un’arte che impone spostamenti, traslochi, traduzioni, dislocazioni. Chi scrive poesia (ma, in un certo senso, anche chi la legge e ne fruisce) è fuori di sé, nel senso che non sta più in se stesso, che è costretto a uscire da sé, a emigrare. La poesia è una forma di esilio, da cui ci giungono notizie di un mondo sconosciuto eppure stranamente consueto; è un’interlocutrice familiare e, allo stesso tempo, inquietante (unheimlich), scritta in una lingua che crediamo ci appartenga, ma che giunge a noi trasfigurata dalla lontananza, estraniata. Questo è innanzitutto l’esilio perfetto cui accenno nel titolo: l’inesorabile, inevitabile esilio di ogni scrittura poetica; perfetto perché compiuto. D’altra parte, nell’idea di compiutezza, si cela anche il senso, o meglio, il fondamento utopico della poesia, il suo essere ricerca del luogo giusto, adatto – perfetto, appunto – in cui stare, abitare, essere.
Un esilio perfetto è una raccolta di raccolte, un’auto-antologia, in cui propongo testi già editi, accompagnati da una breve silloge di poesie scritte nel 2015 e finora inedite. Trattandosi di un’auto-antologia è da considerarsi non solo una raccolta autonoma e a sé stante, ma anche una breve, frammentaria storia in versi del mio lavoro.
Il libro si apre con poesie tratte da Nella costanza, la mia raccolta d’esordio, uscita nel 2003, nella collana Parsifal delle Edizioni Atelier. Quando ripenso alla scrittura di quel libro, mi tornano alla mente, innanzitutto, i ripetuti traslochi dei miei primi anni a Monaco di Baviera, le stanze dello studentato di Biederstein accanto all’Englischer Garten, un monolocale vicino all’Università Tecnica e il villino quasi fiabesco in cui mi trasferii con la mia compagna, non molto distante dalla Glittoteca (la cui elegante caffetteria, tra busti romani e capitelli corinzi, allora gestita da un veneto, era diventata per me, allora, una specie di ufficio). Penso agli scatoloni pieni di libri, carte e diari e ai miei pochi vestiti, alla moquette verde-scuro di un corridoio notturno, a stanze che si popolavano pian piano, per esser poi abbandonate e rimbiancate nel giro due giorni. Penso a bui androni in Jugendstil, a cucine poliglotte, a una pianta di basilico sul davanzale, all’ufficio sul retro di una galleria d’arte e a vecchi che giocano a scacchi sotto i castani della Münchner Freiheit. Nella costanza è il libro della mia migrazione amorosa e intellettuale, del mio divenire straniero, sulla carta e nel paesaggio. Le poesie lì contenute, scritte tra il 2000 e il 2003, sono nate da una meraviglia disordinata e incontenibile per tutto quanto mi passasse allora sotto mano, sotto gli occhi e nelle orecchie: dalle piccole epifanie del dopo-colazione al dilemma quasi erotico di una traduzione.
La seconda sezione del libro è tratta da L’invasione dei granchi giganti, raccolta uscita nel 2010 presso Marietti, in cui era anche confluita la versione integrale del mio poemetto I Mirmidoni (2006). Anche L’invasione è un libro che ha traslocato più di un paio di volte nella sua gestazione, dal villino cui prima accennavo, dove buttai giù i primi versi della poesia titolare, passando per appartamenti condivisi e non, fino alla residenza (per ora la più stabile) dove le mie figlie hanno mosso i primi passi. Questo è un libro in cui mi riconosco ancora profondamente, soprattutto per il disequilibrio vivificante che lo anima, per le sue visioni, per i suoi estremi, dalle orchestrazioni rimbombanti, mitopoietiche (come alcuni le hanno credo giustamente definite) della sezione “Invasioni”, con cui si apre, ai toni più lievi, meditativi, se non addirittura intimistici, delle poesie “domestiche”, con cui si chiude. Mi piace pensarla, questa raccolta, come una serie di libri: un libro-arca, pieno di animali e cartografie impossibili, un libro-archivio, in cui ho nascosto le mie letture in forma di verso, marcandole con segnature che io stesso tra qualche anno non saprò più decifrare, un libro-confessione, dove ho esposto gioie e malattie familiari, un libro-grammatica, dove parlo d’amore camuffato da linguista.
Quando morì mio padre, nei primi di marzo del 2013, stavo scrivendo furiosamente, con la determinazione esaltata del mezzofondista a pochi metri dal traguardo; stavo lavorando a un libro di poesie, che avrei poi intitolato L’impronta (uscito nella collana i domani, presso l’editore Aragno, nel 2014). Volevo precedere la sua morte, finire la raccolta prima che ci lasciasse. Non so bene perché lo desiderassi, cosa mi prefiggessi esattamente con questa insulsa gara contro il tempo, ma ho ben presente il mio alternarmi tra testo e capezzale, per stargli vicino, certo, per accudirlo, ma anche per comprovare di avere ancora tempo. Ricordo bene i miei su e giù, tra la mansarda (la mia vecchia stanza da ragazzo e quella in cui mi ero riacquartierato, nei suoi ultimi giorni di vita), e la camera al primo piano, col letto ortopedico, su cui avevamo adagiato il suo corpo ormai prosciugato dal tumore. Volevo terminare il libro prima che se ne andasse. Forse volevo evitare che quel libro diventasse il libro della sua morte. La sua malattia stava già inarrestabilmente impossessandosi dei testi più nuovi e non volevo che anche la morte vi entrasse, vincitrice, inamovibile, con quel suo ghigno metafisico. Volevo un libro pieno di vita, così lo avevo iniziato, pieno di città, mappe, avventure. Mio padre se ne andò prima che lo terminassi, in una tiepida notte di marzo – ed io scrissi un libro completamente differente.
Un esilio perfetto si chiude con sette inediti, sette poesie tra loro affini, sia dal punto di vista formale, sia per tono e materia dei versi. Sono poesie che ho composto tra il febbraio e l’agosto del 2015. Nello scriverle, avevo come la sensazione di tenere nelle mani degli esseri lisci e sinuosi, come il tragitto tra Monaco e Innsbruck via Garmisch-Partenkirchen, che percorrevo in quel periodo per andare a insegnare presso l’università del capoluogo tirolese. Sono in prevalenza poesie erotiche (forse il genere che ho meno frequentato nelle raccolte precedenti), in gran parte dominate da un non sempre esplicito paesaggio alpino, tra formazioni moreniche ricoperte di conifere e il fiume Inn, grigio e denso per i detriti glaciali. Vi è però tra quelle anche una poesia che ricorda una breve vacanza nel sud della Borgogna, un week end trascorso su un “dosso platonico”, tra boschi e prati, in un casale del seicento, a traliccio, con vasi di gerani e infissi bianchi.

 

cinque poesie da Un esilio perfetto. Poesie scelte 2000-2015Milano, Feltrinelli 2015

Nascita di una stanza

Come si popolano le stanze dell’uomo,
un giorno s’aggiunge una sedia di legno scuro,
poi un acquario,
col pesciolino dell’ultima abitazione,
una pianticella sulla mensola alla finestra,
e sul pavimento un tappeto
acquistato per caso un sabato, al mercatino delle pulci.
Si dispongono i libri, ben sapendo che è un fronte
steso contro l’ospite.
Il lavabo quasi sparisce tra tubetti di dentifricio,
spazzolini, bicchieri e flaconcini vari.
I consumi hanno la loro estetica, stanno
al tavolo come guardie incanutite di merende trascorse,
un barattolo vuoto, che lascia intuire una crema di nocciola,
due bucce d’arancia mai spostate, per il profumo
gratuito che suggeriscono alla mente.
Le candele hanno una funzione doganale,
segnano il passo del tempo, scovano il maltolto.
La stanza del mio nuovo vicino è più o meno simile,
ha compiuto tre anni, sarà presto abbandonata.

La mia è ancora bianca, vi abito da poco,
è una porzione ospedaliera del sonno, illuminata
da una lampada da studio e da qualche candela alle prime armi.
I miei libri stanno secchi sulle mensole, parlano
di una malattia achabiana, ancora non risolta.
La scrivania è crudelmente – e così la lascio – alla finestra,
vedo luci intermittenti accendersi nel palazzo vicino.
La finestra è una pupilla, io il liquido oculare.
Dall’altra parte, studiano, litigano, s’amano, mangiano,
li lascio fare, non intervengo, ho deciso un piano d’azione
svizzero, non mi tireranno fuori di qui,
non prima che la mia stanza abbia preso un aspetto più umano.

 

 

La nuova lingua

                                                                   a Karin Birmele

Un nuovo vocabolario, una lingua di melanzane
e carote volevi, senza kappe né dieresi,
accentuata, soprattutto grave,
dove l’essere accelera
verso Oriente sulla terza persona
(a volte un esso, lo so, non scherzare,
il neutro è cosa seria
anche se ectoplasma nei miei polmoni).

Vennero il prossimo e l’imperfetto, ma non m’accorsi
del tuo salto grammatico, non diedi spiegazioni
al futuro e in legioni si pararono
i diari, le tue repliche al passato, confusioni
tra continui e derive del perfetto.
Nemmeno del pronome mi ricordo,
eppure d’un tratto c’erano tutti
i dativi a me piace
il pompelmo, gli accusativi, vèstiti,
i dominativi ne voglio ancora.

Ricordo l’evoluzione semantica, il duello
idiomatico, sull’in bocca al lupo,
la resistenza metaforica al dato,
la risposta all’ottativo
(sì, quasi come le crêpes in Bretagna),
la prima condivisione dell’ira
e la pace filologica:
pensare nella lingua e non per la lingua.

Relazione lessicale, la nostra, mio melograno,
mio pòlipo, culinaria, hai sempre amato
una certa alchimia da fornello.
Una comunicazione ipotattica, disciplinatamente
ternaria, indoeuropea.
                                  Quando poi
entrai nella tua lingua, fu più dolce
ancora il fraintendere.
Mi sottomisi ad un verbo ippico, guerriero
che poteva dividersi, slogarsi
nella frase principe, comprendere il tutto
in un abbraccio di radice
e prefisso, subordinando
gli altari del soggetto ed i pascoli del complemento.

Con te presi a fumare, con te, nuova e medesima lingua,
le ho fumate tutte, fino al bruciore
notturno sotto la laringe, fino
al raschio verticale.
                               Le ho aspirate
per sbloccare la vita del batterio fonetico
agitare il rājā, rex, rīx dei miei avi,
l’arciere sàrmata e l’auriga vedico
che ancora errano tra le catacombe dei mie polmoni.

 

Tra arance e filosofi

Nel nostro sangue schiarito dal mare
nelle nostre ginocchia sefardite
nel destino boreale del piede

nell’archivio vivente del tuo lascito
nell’entusiasmo del mio dito indice
nel profumo di Zambia e dopobarba

nell’intuito dei fratelli, negli occhi
delle mie figlie ti rivedo padre
a tuo agio in contemplazione e sorrisi

in quelle dissimulate esegesi
del dopocena, tra arance e filosofi,
quando a inquieti adolescenti sbucciavi

il codice futuro:
siate esatti nell’anima, imperfetti
nell’aderire, audaci nell’attesa.

 

Stella minore

Sembravano congegni manomessi
le nostre decisioni,
corsetti ortopedici fin de siècle

con bretelle di lucido cuoio,
solidissime a vedersi,
ma senza fibbie per chiuderle.

E i nostri allontanamenti parevano
scanditi da orologi
rigorosi ma privi di lancette.

L’ultima volta che ci promettemmo
la fine ci bastò un poco di torba
e dolore per riannodare il filo

– il sinuoso alfabeto della notte –
contemplando del tabacco la combustione,
quasi fosse la stella minore di un cielo antartico.

Ora, invece, i silenzi sono chiari,
propedeutici alla resa,
irrevocabili come lettere imbucate.

Abbiamo passato Mittenwald da giorni
in direzione di un futuro semplice
che sa di mandorle e lenzuola pulite,

verso una prima persona plurale
di cui non saremo mai
simultaneamente parte.

 

Un esilio perfetto

Ricordo una febbre a nord di Lione,
dove le colline voltano al Golfo
le loro spalle di latte e smeraldo,
la portiera di un’auto (che dava poca
solitudine) e una cascina a traliccio
sulla cresta di un dosso platonico.

Quando passammo i cancelli della corte,
un popolo di mani e voci antiche
come un salmo si prese cura dei margini
devastati delle nostre anime.
Noi eravamo l’immagine di un esilio perfetto
e la nostra dimora una cellula d’eternità.

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