#1Libroin5W.: Andrea Inglese, “Stralunati”, Italo Svevo.

Chi?

Questo libro di racconti e prose brevi pullula di personaggi, ognuno dei quali ovviamente caratterizzato da un grado più o meno cronico di “stralunatezza”. Ci sono quindi poeti che declamano di preferenza durante le assemblee condominiali, disoccupati coinvolti in progetti pilota di “diversa” occupazione, cani questuanti ma anche maiali chiassosi e aggressivi, ci son donne che vorrebbero cambiare vita, uomini che acquisiscono superpoteri leggendo romanzi, Babbi Natale complottisti, robot che respingono le avances di un’umanità disorientata, i fratelli (famosissimi) che si detestano, c’è la vicina di casa (che non vi auguro), Furibarza, Gario Hadd, Cosimo Calarno, e tanti altri, anche senza nome e profilo preciso.

Cosa? 

Tutti questi “stralunati” vorrebbero fare qualcosa, anzi vorrebbero fare qualcosa della loro vita, ma molto spesso hanno difficoltà a passare all’azione, in quanto rimangono come intrappolati in un forsennato desiderare o rimuginare. In molti casi, la loro azione è governata dalle regole del mondo lavorativo. Agire significa quindi lavorare, essere occupati dentro un sistema complesso e sfuggente. Se quindi c’è un filo rosso che attraversa le diverse situazioni fantasmagoriche di questo libro, credo sia proprio la questione del senso sempre più enigmatico che il fare acquisisce nella nostra società. Se noi siamo quello che facciamo, ossia quello che realizziamo dentro e fuori la nostra vita professionale, allora la nostra identità è divenuta altamente problematica. E in effetti tutti i personaggi di Stralunati hanno difficoltà non solo nel dare senso al loro lavoro, o alla mancanza di lavoro, ma anche ad azioni estremamente elementari come alzarsi dal letto ogni mattina.

Quando? 

Questo libro raccoglie un lavoro di più di una decina d’anni, e mette assieme racconti brevi “novecenteschi” con forme di prosa più destrutturata. Come in molti casi, è l’occasione che ha fornito l’idea non tanto di raccogliere semplicemente questo materiale più o meno narrativo, ma di costituirne un libro, ossia qualcosa che ha una fisionomia e una compattezza specifica. L’iniziativa è venuta da un’amica, Margherita Macrì, che collaborava con Dario De Cristofaro alle collane di Italo Svevo. Inizialmente Margherita e Dario erano interessati a un lavoro narrativo di più ampio respiro, ma poi hanno accolto la mia proposta di un libro di racconti brevi. Dario ha pensato subito che potesse inserirsi bene nella collana – che io già conoscevo e amavo – Biblioteca di Letteratura Inutile. E qui mi sono trovato in compagnia, ad esempio, di Luigi Malerba o Augusto Frassineti, due autori che erano certo a loro agio con ogni sorta di stralunamento letterario. In conclusione, è stato un libro meditato e accudito, come ogni scrittore vorrebbe che accadesse per ogni episodio della sua produzione.

Dove? 

Il testo è nato in Italia, spesso sollecitato da interventi in rivista – penso alla rivista cartacea “Sud”, diretta da Francesco Forlani, sulla quali sono apparsi alcuni racconti – o in rete – penso, in questo caso, a “Nazione Indiana” o a siti amici come “Carmilla”. L’architettura finale ha preso però forma in Francia – dove ormai vivo – nel corso di quell’elettrizzante esperienza che è stata la pandemia, con acclusi confinamenti, malattie, corsa ai vaccini, videoconferenza ad nauseam. Durante tale periodo – in cui anche il più chiaroveggente virologo aveva l’aria di un pericoloso stralunato – il libro ha trovato – io spero – il suo giusto ritmo, che lo rende qualcosa di più e diverso da una pura somma di racconti e testi brevi.

Perché? 

Perché mi andava di divertirmi e di far divertire il lettore, toccando tutti i tasti della letteratura umoristica – dal comico al nonsense, dall’assurdo al parodico –. Non l’ho forse detto, ma questo è un libro che può persino far ridere, obbiettivo difficile, ma che io ritengo nobilissimo per i pochi autori che riescono a raggiungerlo. Molta letteratura vuole avare una funzione consolatoria, cercando di somministrare rassicuranti dosi di senso nelle vicende che racconta e nei personaggi che costruisce. Io trovo una certa consolazione nel processo inverso, quando leggo un incipit come questo, tratto da un racconto di Daniil Charms: “Un uomo dal collo sottile si cacciò dentro un baule, chiuse sopra di sé il coperchio e cominciò a soffocare”. Ecco, una situazione che mi mette, personalmente, di buon umore. In fondo, molte circostanze in cui ci andiamo a cacciare nella vita non sono poi tanto diverse da questa, apparentemente così bislacca.  

scelto per voi

 

La forza dei romanzi

Quando Anselmo leggeva romanzi, davvero immergendosi nelle pagine, si rendeva conto che la sua vita acquistava slancio. Lui rimaneva fermo un paio d’ore a popolare la mente di ambienti, fatti e personaggi menzogneri, e intanto gli obiettivi remoti del suo vivere si facevano più vicini, come visti attraverso un’aria tersa, quasi ingranditi da una lente. Leggeva con foga storie di gangster che sparavano ai funerali attraverso finte cornamuse che erano in realtà potenti mitra. C’erano anche le storie di adolescenti ubriachi, che si rotolavano a terra e facevano l’amore con lo stile delle più abusate pornostar. A ogni romanzo, ci scappava un morto, e a volte anche di più, e si facevano enormi fortune con sole quattro o cinque pagine d’intrighi. Ad Anselmo sembrava che, assorbendo in un mormorio appena allucinato quell’arazzo di parole, il suo corpo rinvigorisse, come dopo anni di palestra e acquagym. Tutto si depositava in una piccola zona della memoria e da lì s’irradiava con una grande energia nelle membra. E lui, come un eroe coi superpoteri, più leggeva più rovesciava con noncuranza gli ostacoli. Si sentiva in grado d’infilarsi in nuove situazioni, di abbordare la gente per strada, di mandare lettere al presidente della Repubblica o ai grandi imprenditori d’oltreoceano, e riusciva a fare cose che in condizioni normali di fruizione televisiva o di lettura di gazzette non gli erano concesse. Cambiava bar da un giorno all’altro, scardinando vecchie abitudini. Al posto del cappuccio ordinava una cioccolata, e la sera al Martini sostituiva uno spumante. Andava a ritirare vecchie raccomandate con la ricevuta sgualcita; faceva il pieno di benzina anche in periodo di crisi, fissando con sguardo freddo la cifra esorbitante che il contaeuri della pompa segnalava. Si cucinava pazientemente, con gesti solenni da sacerdote, due uova al burro, lasciandole friggere su fiamma bassissima.

Se finito un romanzo, non riusciva però a superare il muro delle trenta pagine di quello successivo, quando insomma esitava tra più romanzi senza portarne a termine neppure uno, allora perdeva velocemente le forze, vedeva tutto nero, e scorgeva macchie misteriose in punti poco visibili del corpo. Alla fine, smetteva persino di uscire di casa e, se aveva un lavoro, anche buono e ben pagato, tendeva a farsi licenziare. Tornava a cenare con le fette di mortadella, estratte dalla busta di plastica e ficcate in bocca con le mani.

 

in copertina ph di Mylène Sarant

 

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