#1Libroin5W
CHI
Larve, simulacri, caricature: questo sono i personaggi dei miei bozzetti. Ho vissuto, prima da studente, poi da assistente e infine da docente, per ben 52 anni nella Facoltà di Lettere catanese, tra Palazzo Centrale, Palazzo Sangiuliano e il Monastero dei Benedettini. Dovrei dire, anzi, che ho convissuto: con diverse generazioni, dai “maestri” nati all’alba del secolo scorso fino agli studenti – i millennials – nati all’inizio del nuovo secolo. E con loro, soprattutto coi miei coetanei con cui ci siamo formati scambiandoci scoperte, ardori e furori, ho vissuto esperienze intense, di cui non posso che esser grato. Inutile, perciò, cercare riferimenti e somiglianze nei miei personaggi bislacchi, grotteschi, eccessivi, per l’appunto caricaturali, che incarnano piuttosto un pericolo, una perversa tendenza che, non per colpa dei singoli, ha preso ormai tristemente forma.
COSA
E qui passiamo al Cosa? Be’ pensate a quale miscela esplosiva può venir fuori innestando vecchi vizi su nuovi obbrobri: e cioè da una parte le sopravviventi scorie del passato (baronaggio, nepotismo, gestioni spregiudicate e padronali un tempo prevalenti, oggi meno frequenti perché più controllabili) e dall’altra la tendenza di cui dicevo, che ormai da un quarto di secolo, in obbedienza all’idolatria del Mercato praticata dai nostri pessimi governanti d’ogni colore, ha trasformato l’università in un’azienda che smercia crediti e asettiche “competenze” sminuzzando il sapere e banalizzandolo, estirpandone il pensiero critico ritenuto improduttivo, riducendo i saperi a tecniche, le felici e libere congetture d’un tempo ad esanimi e costrittivi algoritmi.
QUANDO e DOVE
Al Quando? e al Dove? posso rispondere che l’idea è nata tra le aule e i corridoi dell’ateneo, osservando e sorridendo, o nei congressi accademici in Italia e all’estero, ma lì è stata solo vagheggiata. La realizzazione si deve invece alla forzata clausura di questi giorni tristi, che mi ha concesso la quiete e la distanza necessarie a trasfigurare quelle esperienze con mio grande divertimento: spero anche di chi mi leggerà.
PERCHÉ
Perché? Difficile rispondere. Confesso di essere, ahimé, un “profondista”: di prediligere cioè le amare considerazioni e le traumatiche introspezioni di Leopardi e Dostoevskij, di Mann e Musil, di Bernanos e Camus, e invece di avere scarsa familiarità con l’umorismo, con la letteratura giocosa o satirica, come a dire dal Circolo Pickwick a Camilleri. Ma in questi tempi grevi avevo voglia di divertirmi, e di divertirvi; di raccontare il mondo universitario in cui ho vissuto come se una risata, prima che i governi e la finanza, lo sgretolasse; di metterlo in scena come in quelle buffe sfilate che concludevano gli spettacoli di varietà dei nostri padri e nonni: perciò, anche, con una struggente nostalgia, con un implacato amore.
Che il professor Anchise D’Ignoti, docente sessantacinquenne di Ittiologia balcanica nel dipartimento di Scienze equoree, intrattenesse una relazione con Agata Spicuzza, assegnista venticinquenne, era opinione comune. Triste topica accademica, quella dell’anziano docente che pianta la consorte per la giovane allieva; ma quarant’anni di differenza, perdìo, gridano vendetta al cielo! E come tollerare l’accostamento di quel ceffo bitorzoluto e arcimboldesco al soave profilo preraffaellita di Agata! I colleghi affranti ne discutevano spesso, ma a conciliaboli e sghignazzi si manteneva estraneo Felice Scòrfano, che oltre ad essere titolare d’un cognome così disgraziato lo era dell’eterna promessa di un concorso riservato a un posto di ricercatore di Psicopatologia dei cetacei, ambito da vent’anni di collaborazioni assidue e gratuite.
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Non c’era ragione, in verità, perché un nuovo ateneo si annidasse sulla vetta del monte Patacca, a milleduecento metri sul livello del mare, fra costoni e crepacci finora frequentati solo da aquile smarrite ed escursionisti dello Schleswig-Holstein. Ma negli anni scanditi dal passo romano un capo-manipolo della milizia del paesino sottostante, Casconero sul Patacca, si era aggiudicato il favore del Predappiese Pettoruto inoculando per via rettale ingenti dosi di salgemma grezzo all’ex sindaco socialista e all’intera sua giunta, nonché producendo da provetto ebanista (e smerciando clandestinamente) piccoli e graziosi fasci littori in profumato legno di sandalo da usare – ma con la dovuta riservatezza – come godemiché.
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«Sto leggendo ‘sto Proust…» (pausa di esitazione; poi, perentorio) «ma mi pare cretino».
Traduciamo dal dialetto siculo quanto il professor Peppino Spanò diceva a un gruppetto di colleghi sbigottiti. Titolare di un insegnamento di Letterature comparate, da trent’anni teneva lo stesso corso. Argomento: il carteggio che con la grande Sarah Bernhardt aveva intrattenuto un maresciallo dei carabinieri di Chiappa Marittima (il ridente paesello del prof), milite sì dell’Arma ma autore – e primattore in recite parrocchiali – di quaranta tragedie inedite di cui venti in versi martelliani (Spanò le riteneva il culmine della drammaturgia primonovecentesca: «Altro che quel sopravvalutato Pirandello!» urlava agli studenti, «qui siamo al livello del grande Dario Niccodemi!»). Di quel carteggio il docente in questione possedeva le minute di centododici lettere del maresciallo, che tuttavia non avevano mai ricevuto risposta dall’altera regina delle scene.