#1Libroin5W
Chi?
I protagonisti sono tre, ma meglio sarebbe dire vittime, vittime di tre disastri topici dell’Italia Unita: Adua 1896, Caporetto 1917, l’Otto settembre 1943. Vittime vive, ostaggi finiti nelle mani del nemico e tornati a casa dopo mesi e anni di prigionia. Tre odissee dunque, e il riferimento al tòpos massimo della letteratura occidentale è pertinente in quanto, per necessità e/o ironia della sorte, tre giovani soldati semplici semialfabetizzati iniziano a scrivere. Così la loro subalternità agli eventi si fa protagonismo di penna.
Domenico è un tagliapietra di Alleghe, bellunese e quindi alpino; la sua prigionia è tutta itinerante, trascinato su e giù per l’altopiano etiope in peripezie esotiche, a volte terribili, altre sconcertanti negli esiti, tipo i lauti pranzi nella reggia di Menelik.
Giuseppe, contadino trevisano, esperisce e patisce da granatiere la prigionia in più campi di concentramento. Il suo percorso va parallelo a quello di Carlo Emilio Gadda senza mai incrociarlo però, ché gli ufficiali hanno i loro campi dove alla fame si assomma la noia, mentre Giuseppe alla fame assomma il martirio del lavoro forzato.
Luigi è invece marinaio, pure lui trevisano, ma quanto diverso dal suo concittadino! Picaro indomito, ottimista e sfrontato, trova sempre il verso giusto per cavarsela, anche quando incappa in uno dei momenti più terribili della Seconda guerra mondiale, il bombardamento di Danzica e la battaglia conseguente.
Cosa?
Il tema è sempre quello: che ci facciamo qui, su questa terra?
Ho sempre pensato che si dovesse partire dai piedi, dai piedi per terra, e procedere coi piedi, coi piedi per terra. Il mio mondo è in fondo rimasto quello dove sono nato, Cartigliano in riva al Brenta dove comincia la pianura. La mia lingua è stata il dialetto del mio paesino, già leggermente diverso da quello dell’altra sponda (fin quando almeno Mariano Rumor a fine anni Sessanta inaugurò il ponte), e pur avendo studiato o proprio per aver studiato l’italiano, questo mi risulta ancora adesso qualcosa di artificiale, di costruito o da costruire volta per volta. (Pur abitando a Milano da 40 anni, ho continuato a gravitare anche fisicamente lì).
Da liceali poi (della sezione B, quella dei bifolchi, mentre i signorini di Bassano stavano nella A) battevamo i paraggi letteralmente a caccia di parole desuete e delle loro radici, e si gioiva/rideva come deve aver fatto a un livello più alto un Meneghello.
E avanti di questo passo. (Fortuna che la provincia di Vicenza era la prima in Italia per densità democrista, se no stavo ancora lì).
Quando?
Il nucleo originario del libro è il diario del granatiere, di cui seppi da una cugina l’esistenza. Il mio interesse per la storia pura e semplice (non per la storia della filosofia, che è il mio ramo) si era affinato con la curatela della prima storia della Resistenza, rimasta inedita dal 1948 (Mario Dal Pra, La guerra partigiana in Italia, Giunti, Firenze 2009). Dal Pra (1914-1992) era stato mio professore e poi superiore alla Statale di Milano, ma nessuno mai aveva supposto che allora avesse affrontato un’impresa del genere.
Nel 2011 invece ho trovato una famiglia accogliente: morto ovviamente il granatiere e morto il figlio, nella casa avita restava la nuora con due figli. Auremma mi ricordò subito mia nonna Angela, silenziosa e salda regista della nostra famiglia allargata nella vecchia filanda dove da giovane aveva lavorato per poi abitarla una volta acquistata da mio nonno fruttivendolo. La cucina stessa era uguale, enorme con la stufa e il focolare ecc.
Ho passato da loro parecchi sabati di quell’inverno, con Auremma sempre pronta a costellare il manoscritto di ricordi e a chiarire il significato di qualche termine trevisano a me ignoto.
Dove?
L’idea del libro si è sviluppata da questo nucleo.
Confrontato col manoscritto, l’edizione a stampa mostrava parecchie difformità, dovute alla mano di Comisso. Il trevisano Giovanni Comisso, per un vicentino campanilista come me, cresciuto a Parise e Meneghello, era da tempo il campanile vicino, intravisto e sotto sotto ammirato. Ma paradossalmente adesso, sottoposto cioè a un’indagine sistematica, Comisso mi si è rivelato in tutta la sua grandezza, quella che faceva sobbalzare Gianfranco Contini di sorpresa e che nel 900 è rimasta inspiegabilmente fuori canone (parola a me ostica).
Bene, la stessa operazione di editing Comisso aveva fatto nel giro di tre lustri per altri due soldati, quelli appunto della mia triade.
Perchè?
Il movente segreto, personale, è la figura di mio padre, la sua misteriosità per me, che per prima cosa scritta lessi a sei anni, di nascosto in solaio, certi rotoli di cartone recanti a lettere cubitali epiteti del tipo BOIA, AFFAMATORE, MANO NERA, e solo dopo la sua morte sono riuscito a decifrare, lavorando d’archivio in comune a Cartigliano. Ecco che ho svelato il movente senza però svelarlo: e va bene così, almeno per ora. (Del suo mistero, in preambolo a Ostaggi svelo solo che fu partigiano.)
L’obiettivo invece è palese: contribuire modestamente al filone ricco, ma ultimamente contestato, delle ricerche di storia orale, di storie dal basso. La nuda vita insomma, da cui sono partito nascendo e rispetto alla quale il resto è comunque “secondario”.
Due citazioni, per spiegarmi, che mi accompagnano da tanto, non so se come due angeli custodi o come i due carabinieri di Pinocchio, e qui lascio adespote, la prima perché sin troppo nota, la seconda per consentire al lettore e al suo google di scoprirne l’autore: “primum vivere, deinde philosophari”; “literature is a parody of life”.
Incipit del Diario di prigionia di Giuseppe Giuriati
Dopo tanti combatimenti, tanti dolori, tanto sangue, al 30 ottobre 1917 mi anno circondato i Germanico e noi dopo tanti sforzi mi è tocato abbassare le armi. Allora io e il mio compagno Fiorotto siamo messi a piangere perché si pensava alla vita che mi toccherà passare sotto queste mani e poi invece subito dopo mi anno messo per 4 e abbiamo incominciato a caminare verso Udine, strada facendo abbiamo mangiato i viveri di riserva allora noi mi era passato unpo la rabia e incerto qual modo si scherzava tra di compagni e si diceva ormai abbiamo salva la ghirba.
Erimo al mattino del 30 Ottobre 1917. Per la strada i nostri del carreggio che era scappati avevano lasciati carri, careti, tutti carrichi di qualuncue sorta di materiale e cannoni di oni calibro da fame parte forati dalla mitragliatrice poi strada facendo fra le carette del careggio abbiamo trovato da mangiare e da bere.
Arrivati a Udine là abbiamo fatto tappa, la cera vino al bisogno erimo quasi tutti obriachi e si cantava, ma poi siamo acorti!
Quella è stata lultima allegria e lultima carne che si mangiava, poi si parte verso Cividale.
Arrivati la in un accampamento ma senza barache e meno tende e la si dorme per terra, e da mangiare non se ne parla il giorno dietro neanche.
Erimo ormai ai 3 Novembre si mangiava del grano turco che cera sparso dai muli e cavalli e qualche panochia arrostita.
Ai 4 lo stesso granoturco e delle folie di verze fino che ce nera e poi erba; una fame tremenda e freddo si doveva cambiare ma non si vede ne cambio ne rancio e pochissimo da bere e chi voleva parlare ci sparava col fucile, una vita così araba che non la fa neanche un cane ed uscire non si può ma pazienza si andava incerca di qualche chiccho di grano turco sperso ed il pensiero non mancava mai dalla famiglia genitori sorelle che loro penseranno su dime ed io non poter scrivere.
—
DARIO BORSO, OSTAGGI D’ITALIA. TRE VIAGGI
OBBLIGATI NELLA STORIA, EXÒRMA, ROMA 2021.
Tre diari di soldati semplici, che cercano di tornare a casa dopo mesi e anni di guerra e prigionia, e tre disfatte di Stato: Adua, Caporetto e l’armistizio dell’Otto settembre. Testimonianze autentiche che illuminano mezzo secolo esatto di Storia italiana, dal 1896 al 1945.
L’alpino di Belluno, il granatiere e il marinaio trevisani scrivono in modo elementare, claudicante, a volte sgrammaticato ma riescono a farci rivivere in pieno la loro condizione, la paura, lo spaesamento, la volontà di sopravvivere.
Dario Borso racconta come ciascuno di questi brevi testi sia venuto alla luce grazie al “fiuto” di Giovanni Comisso, scrittore sublime qui in veste di editor, e ne ricostruisce con grande attenzione storico-critica le trascrizioni, il contesto culturale e le vicende editoriali.
Sono pagine inedite (corredate da foto di repertorio, di oggetti personali e manoscritti) che attraversano le zone più intime di vite modeste, persone ostaggio di guerre certamente non volute, gettate d’autorità sul campo di battaglia.
NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA
Dario Borso (Cartigliano, 1949), già docente di Storia della filosofia alla Statale di Milano e di Estetica alla Facoltà di Architettura del Politecnico, traduce e scrive. Noto soprattutto per le sue curatele di varie opere di Kierkegaard, Celan e Arno Schmidt, ultimamente ha pubblicato un’antologia di Georg Trakl (Quaranta poesie, Giometti & Antonello), l’edizione commentata di un romanzo breve di Jean Paul (Viaggio a Flätz, Del Vecchio), e suoi: per Exòrma Tre quadernetti indiani e per Prospero Celan in Italia.
Come cultore di storia contemporanea, oltre a vari saggi, ha pubblicato la prima storia della Resistenza, rimasta inedita dal 1948 (Mario Dal Pra, La guerra partigiana in Italia, Giunti, Firenze 2009), e carteggi dello storico Delio Cantimori e del politico Antonio Giolitti.