#1Libroin5W
Chi?
I protagonisti del libro sono due: Federica e Gianni. Un padre e una figlia legati da un rapporto indissolubile, un cordone ombelicale che resiste alla vita che cambia, alle intemperie sociali, alla crescita biologica dell’autrice e che solo la vita, o in questo caso la morte, riuscirà a spezzare, lacerando quella dipendenza della figlia nei confronti del padre. Ma non l’amore, il ricordo, la gratitudine.
Cosa?
Il libro è incentrato sul rapporto padre – figlia in totale chiave autobiografica, in quanto mi metto a nudo ripercorrendo la mia infanzia, adolescenza e i primi anni dell’età adulta attraverso gli aneddoti, gli episodi e i dialoghi – insegnamenti più significativi che mi legano alla figura di mio padre e che addentrano il lettore nella mia quotidianità, aiutandolo a scoprire e familiarizzare con quest’uomo, sempre presente, forse a tratti ingombrante, ma comunque essenziale per lei e la sua famiglia. E poi c’è il tema del lutto che viene affrontato nelle ultime pagine, quelle drammatiche, in cui catapulto il lettore nell’Ottobre del 2020 quando in piena pandemia mondiale da Covid-19, mio padre finirà in ospedale e per motivi che non sono mai stati chiariti, non ne uscirà più, nonostante la sua età e la sua salute impeccabile.
Quando?
Ho iniziato a scrivere qualche settimana dopo la scomparsa di mio padre. La psicologa mi aveva detto che tenere un diario mi avrebbe aiutato nella gestione del dolore, della rabbia e della frustrazione per aver perso un padre giovane, sano come un pesce, a causa di un virus che ci ha devastato la vita per due anni e di cui si sapeva molto poco in quel preciso periodo storico (probabilmente se si fosse ammalato anche solo qualche mese dopo, mio padre si sarebbe salvato). Comprai allora un quaderno e iniziai a scrivergli quasi tutti i giorni, ma all’inizio erano solo pagine di sgomento e di ferocia contro il mondo e l’umanità. Dopo qualche tempo lasciai perdere. Misi via il diario e cercai di riprendere la mia vita, barcollando e zoppicando, occupandomi di mia madre e di mia sorella. Ma qualche tempo dopo mi ricordai che papà mi diceva sempre che nella sua carriera da giornalista mancava un libro e allora, visto che mi aveva trasmesso la passione per la scrittura e la letteratura, decisi di scriverlo io e di omaggiarlo con un libro che raccontasse di lui, di noi. Partii da quelle pagine buie e a ritroso cercai di ricordare i momenti più belli e significativi, quelli che avrebbero potuto delineare la sua figura imponente, come padre e come uomo.
Dove?
Geograficamente il testo l’ho scritto tra la Sicilia e Milano. Iniziai a scriverlo nella casa di un mio amico che mi ospitò me e mia sorella nei giorni in cui, dopo la scomparsa di papà, tornammo in Sicilia e non potevo stare nella nostra casa perché mia madre era anch’essa positiva e con una carica virale altissima anche lei. Ricordo che per farle compagnia, visto che improvvisamente si ritrovò da sola in casa ad affrontare la perdita di papà e a non poter vedere nessuno, io e mia sorella andavamo sotto casa e la chiamavamo al telefono, così potevamo parlare guardandoci. Noi dalla strada e lei dalla finestra.
Perché?
Questo libro è per mio padre, per rendergli omaggio, per ringraziarlo di essere stato mio padre. Ma è anche per chi, come me, ha perso l’ossigeno e la facoltà di respirare una volta nella vita. È per chi ha perduto qualcuno, per far si che si sentano meno soli, così come mi sono sentita io nei primi due anni dalla scomparsa di mio padre in cui mi rifugiai nelle storie di figli che avevano perso i loro pilastri.
scelti per voi
Ci sono persone essenziali nella nostra vita così come lo è l’ossigeno per vivere, e senza le quali si conduce una vita in costante apnea, e poi ci sono momenti in cui l’assenza di quantità sufficienti di ossigeno porta al non corretto funzionamento delle cellule viventi, che alla fine muoiono. Ma una quantità eccessiva di ossigeno può danneggiare i nostri polmoni che dopo un certo periodo di tempo collassano.
L’ossigeno è equilibrio, è una linea sottile invisibile che oscilla tra la vita e la morte.
Questo libro è per chi, come me, ha perso l’ossigeno e la facoltà di respirare una volta nella vita.
Una mattina di quell’estate faceva un caldo becero. L’acqua del mare era bollente come un brodino d’inverno e non tirava un filo di vento. Sembrava di essere dentro una serra tanto che riuscivi a suda- re da fermo. Eravamo in spiaggia e papà uscì dall’acqua, si asciugò con il telo da mare, se lo mise sulla spalla e s’infilò le ciabatte per andare a casa.
«Elià – disse a mia madre – io staiu surannu e devo anche scrive- re, salgo su». Io stavo appollaiata a pancia in giù in riva al mare, lo intercettai con lo sguardo e gli dissi che volevo tornare a casa con lui.
«Non vuoi stare ancora un po’ in spiaggia con mamma?».
«No. Ho fame, voglio tornare a casa».
«Mettiti le ciabatte allora che la sabbia scotta».
Tra dove posizionavamo i teli e l’ombrellone, e la scala che ci portava sulla strada per andare a casa, c’era una distesa di sabbia così cocente che nemmeno le infradito potevano fare qualcosa. Così papà mi prese in braccio. Teneva il braccio sotto il mio sederino per sor- reggermi e io poggiavo il mento sulle sue spalle. Sapeva di mare, di acqua salata, di pelle scottata dal sole e crema solare. Aveva le spalle piene di piccoli nei misto a lentiggini che io gli toccavo con le mie piccole dita, simulando di unirli come con una penna, come uno di quei giochi della settimana enigmistica.
Arrivati in strada, aveva il fiatone per il caldo e la fatica, così mi mise giù e mi diede la mano. Iniziammo a camminare verso casa. Riuscivo a vedere la veranda della casa dei nonni e ad un certo punto vidi il nonno Elio che si sporse e mi chiamò: «Federicuccia qua sopra sono». Mentre lo diceva agitava la mano per farsi vedere meglio. «Ho comprato il pane ed è caldo caldo. Dai sbrigati che ce lo mangiamo a’ nonno». Non voleva farmi fretta, voleva solo essere affettuoso. E poi il pane caldo mi piaceva un sacco. Così, in modo del tutto imprevedi- bile, lasciai la mano di mio padre e attraversai la strada senza guar- dare; una macchina arrivò quasi a sfiorarmi e si sentii fortissimo il rumore della frenata sull’asfalto. Mi spaventai. Capii che l’avevo fatta grossa. Mi girai verso mio padre e lo vidi con gli occhi sgranati e le vene delle tempie che gli si stavano ingrossando.
Era finita. Avrei preso sicuro qualche schiaffo, così mi misi a correre più veloce che potevo per arrivare a casa e nascondermi da qualche parte in attesa che si fosse calmato. Le infradito mi davano fastidio. Non potevo correre con quelle. Così le tolsi e le lasciai lì, in mezzo alla strada. Papà m’inseguì. Arrivata davanti casa, spalancai il cancello e lo lasciai aperto e iniziai ad arrampicarmi letteralmente per la scala a chiocciola aiutandomi con le mani per fare prima e davanti alla porta di casa iniziai a suonare il campanello con insistenza. Mi aprì la nonna: «che c’è, che è successo?».
«Se viene papà tu digli che non l’ho fatto apposta».
«Che cosa non hai fatto apposta?».
Nel frattempo papà era arrivato, aveva buttato a terra i teli da mare, i giornali e le mie ciabatte che aveva raccolto per strada, e si trovò davanti mia nonna. Io le stavo dietro attaccata alla gonna.
«Mamma togliti, mi fici nesciri u cori».
«Nun nu fici apposta a figghia, nun ci fare male».
«Gliele do sul culetto ma deve capire».
Io nel frattempo frignavo perché capivo che il pericolo era sempre più vicino. Papà si scorse dietro la nonna e mi afferrò per un braccio e mi diede due belle sculacciate, chiedendomi in continuazione: «l’hai vista la macchina che arrivava o no?».
E io con le lacrime agli occhi e i singhiozzi dicevo che non l’avevo vista, che non me n’ero accorta.
«Ah no? Allora dobbiamo mettere gli occhiali? Non ti posso lasciare sola nemmeno un attimo perché ti fai mettere sotto? Non si lascia la mano a papà, hai capito? Hai capito o no? Non si lascia mai» urlò.
Nel 1995 avevamo una sola macchina, una Fiat Tipo bianca, e visto che ci era stata rubata, in attesa di prenderne un’altra, papà per qualche mese mi accompagnò a scuola con la Lancia Y10 dello zio, suo fratello, che viveva ancora con il nonno e la nonna nell’apparta- mento di sotto, inattesa di sposarsi.
La macchina dello zio, a differenza di quella di papà, era impeccabile. Sempre ordinata, pulita e profumata.
Aveva anche la radio, ma una sola cassetta: il meglio di Antonello Venditti.
Il tragitto casa-scuola era tutto a base di “Sara, svegliati è primavera”, “In questo mondo di ladri” e la mia preferita “Benvenuti in Paradiso”.
Aveva l’abitudine di dare finti baci, come li chiamavamo io e mia sorella. Poggiava la sua bocca sulle nostre guance senza emettere alcun tipo di suono. E noi ridevamo, imitandolo.
«Pa’, ma lo sai dare un bacio vero?».
«Perché, non è un bacio vero questo?».
«Ma perchè perdi tempo con questi scassapagghiari!».
«Nella vita, Chicù, bisogna fare del bene».
«Sì, ma un conto è fare del bene, un altro è fare beneficenza,
come fai tu. Ti tornasse indietro qualcosa, almeno».
«Fai bene e scurdatillu, diceva sempre il nonno Peppe, nun tu scurdare mai».
«Sì, ma sono io tua figlia, non loro».
«Non tutti Chicù hanno avuto la fortuna di avere un padre come l’hai avuta tu, uno che ti vuole bene come te ne voglio io, uno che ti ascolta, che c’è sempre, che per te farebbe qualsiasi cosa».
«E per questo motivo ti devo condividere con tutti questi figli adottivi?».
«Tu non mi condividi con nessuno. Tu e Giulia siete la vita mia, sempre al primo posto insieme alla mamma, ma vorrei che fossi un po’ più generosa».
«Cioè?».
«Cioè che dovresti essere felice che tuo padre sia così ben voluto, così cercato anche da persone con cui non ha legami di sangue, vuol dire che mi viene riconosciuta una certa saggezza, una certa amorevolezza che è bella e a me personalmente mi fa stare bene».
«Vabbè, ma anche io se posso, aiuto gli altri».
«Sì, ma devi imparare a non aspettarti nulla in cambio. Se decidi di farlo è perché lo vuoi, non perché ti aspetti un tornaconto personale. Questo vuol dire fai bene e scurdatillu».
Non decidemmo nulla, perché tempo non ce ne fu. Ero io che dovevo decidere stavolta, da sola e con la mia testa, senza farmi influenzare da nessuno e soprattutto senza il suo benestare, perché per la prima volta non era in grado di darmelo.
Il lutto ti mette di fronte a tante esperienze.
Ti rende gelosa del tuo dolore, come se quel sentimento fosse l’unica cosa che ti resta per sentire vicino la persona che hai perso, per- ché nonostante tu abbia trascorso del tempo con quella persona e tu abbia dei bei ricordi, non ne puoi collezionare di altri e questo ti uccide e allora il lutto scopre il lato masochista che è in te. Te lo tieni stretto.
Quando ripresi la mia vita e tornai a lavorare, mi sentivo inadatta e inadeguata. Tutto quello che mi circondava mi sembrava stupido e futile. M’infastidiva ascoltare anche una sola lamentela che non fosse costruttiva e il cinismo si stava impossessando di me, per cui se qualcuno lamentava un male sopportabile o aveva da ridire sul figlio che non studiava, o ancora il fidanzato che non l’amava abbastanza, mi sentivo impazzire dentro e così per evitare di dire: «chiudete quella maledetta bocca», dicevo che dovevo fare delle commissioni e uscivo a prendere aria. Mi rifugiavo nel mio dolore, guardando le foto di papà, come se volessi riequilibrare il tutto: riappacificarmi con i veri sentimenti, quelli che contano. Sbloccavo il telefono e guardavo il suo abum fotografico dove avevo raccolto tutte le foto di lui e con lui. Guardavo i suoi occhi, sempre un po’ socchiusi, dietro quegli occhiali spessi e mi dicevo (e mi dico ancora): sei esistito davvero? come è possibile che non sei più qui con noi? Mi manca tanto la tua voce, il calore del tuo corpo quando mi stavi accanto, e la tua risata contagiosa.
Perché il lutto fa anche questo: mette in dubbio quello che è stato.
Eppure questo non l’ho sognato. Io ho avuto davvero un padre eccezionale e meraviglioso. Un serbatoio di amore e generosità e voglio gridarlo al mondo: «io sono sua figlia».
—
Federica Molè nasce a Comiso (Ragusa), nel sud-est della Sicilia, nel 1987. Dopo il liceo, si trasferisce prima a Siena e poi a Milano per i suoi studi in ambito letterario. Nel 2010 diventa giornalista professionista. Ha collaborato con La Repubblica, La Gazzetta del Sud e l’Ansa di Palermo. Nel 2012 vince la Borsa Giavazzi e trascorre quattro mesi all’interno della redazione calcio del quotidiano di sport più famoso d’Italia: La Gazzetta dello Sport. Nel 2015, continuando le sue collaborazioni, comincia a lavorare nel settore pubblicitario, a Milano. Oggi è una giornalista e una producer freelance.