Chi?
I protagonisti del libro, ma si potrebbe dire meglio la protagonista del libro. Perché è la fiaba l’argomento che costituisce l’atto di riflessione in cui il libro consiste. E dentro la fiaba come genere, tutti i più vari protagonisti che abitano il suo bosco, la sua foresta: gli animali, le piante, i doppi, gli specchi, le metamorfosi, le paure, le ambiguità, le rivelazioni, i travestimenti, tutto ciò che nella fiaba agisce e dalla fiaba fiorisce in storie avvincenti, in cammini a volte intricati, in sentieri interrotti, in radure, in vicoli ciechi, in soluzioni di volta sorprendenti, in nodi risolti, in finali lieti, ma anche in conclusioni non sempre rassicuranti.
Cosa?
Le ragioni del libro sono quelle che vincolano la nostra memoria e la nostra storia alle fantasie che animano la nostra realtà, che non è solo e sempre quello che vediamo, ma anche quello che non riusciamo a vedere se non per immagini e – in qualche modo – per divinazioni. Metafore della nostra esistenza, storie che accompagnano i nostri divieti, i nostri ostacoli, il nostro inconscio. Un surrogato dei più antichi e drammatici conflitti, la sopravvivenza e la conversione di un bisogno irrinunciabile. Temi come i seguenti: il cibo, il bosco, l’aiutante magico, gli animali, gli orti e i giardini, il viaggio, il doppio e così via.
Quando?
Il libro nasce da un’occasione, se si vuole, banale. Un premio legato a un ambiente preciso che è quello montano, in una zona del Piemonte che comprende una parte di un’area condivisa e di un parco nazionale, il parco del Gran Paradiso. E dunque “Una fiaba per la montagna” ne è un po’ l’atto di nascita. Un premio diretto a grandi e piccini che ogni anno propone un tema a cui si dedicano i concorrenti, sempre molto numerosi. Ogni anno, per accompagnare l’invito, ho scritto un testo e il libro non è che la raccolta dei testi scritti fino a quest’anno. Ne è nato un libro commisurato, di cui – spero non presuntuosamente – sono molto soddisfatto anche grazie alle illustrazioni che Gianfranco Schialvino, un incisore magistrale (che firma la copertina) ha scelto tra i tanti artisti che ha portato nelle sue molteplici mostre allestite come curatore.
Dove?
Il quando spiega già in qualche modo il dove. In ogni caso ci sono molti dove, perché le pagine nascono a contatto con le singole tematiche su cui il testo riflette. Ogni argomento sollecita specifiche osservazioni e inducono ad allargare gli spazi della fiaba che si sviluppa lungo l’ampio raggio delle sollecitazioni con cui di anno in anno i concorrenti sono chiamati a cimentarsi.
Perché?
Perché questo libro – dietro le orme imprescindibili delle Fiabe italiane di Calvino, ma anche delle considerazioni sulla fiaba di Cristina Campo (le si veda nel volume degli Imperdonabili) – vuole essere un’ulteriore proposta di riflessione, come credo potranno spiegare le pagine scelte che accompagnano questa piccola intervista.
scelti per voi
Il bosco come luogo iniziatico (in cui le civiltà tribali mandavano i loro figli a diventare uomini). Il bosco come luogo sacro (tempio del nascosto, vibrazione del divino). Il bosco come luogo di incantesimi e di metamorfosi. Il bosco come luogo di nascondigli e di “sentieri interrotti”. Il bosco come luogo di “fuorilegge” e di agguati (la foresta di Sherwood). Il bosco come luogo di destini incrociati (basterebbe pensare ad Ariosto). Il bosco come luogo del buio, come giro dell’ombra, come formidabile universo dei nostri grovigli. Il bosco dei demoni, dei carbonai, degli “òm da bòsch”, dei coboldi e dei sette nani. Il bosco come ventre e come salvezza, come salvaguardia e come risorsa. Il bosco come luogo dell’avventura e della sorpresa. Il bosco-mondo che ha alimentato e continua ad alimentare – nonostante i tanti nefasti annunci di distruzione e di morte – le nostre menti, le nostre emozioni, e infine (tanto più oggi) le nostre esigenze vitali.
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La fiaba è mistero. È finzione di verità. È verità di finzione. Ma è soprattutto gioia di narrare, eco di un’oralità remota, arcaica, antica. Nella fiaba si annidano i residui di una nonna che racconta ai nipoti a cui consegna un pezzo del senso della vita: non una saggezza moralistica, ma un’estrosa re-invenzione del mondo, di una sapienza che dice se stessa nel suo stesso farsi. Come accade con i sogni, con la religione, con i miti. Ma nella fiaba – più che in ogni altra manifestazione d’arte – rimangono attivi i segnali di una vicenda che si racconta o ci si racconta. Come a teatro. Il narratore non può fare a meno di andare in cerca del suo ascoltatore o di sdoppiarsi raccontando al se stesso bambino la magia che lo attanaglia al tempo della sua paura (che altro poi non è se non ricerca di definizione). Ecco perché la fiaba è così apparentemente effusa e così intimamente esatta. Come un meccanismo a scatto, prevedibile e tuttavia sorprendente: capacità di imprigionare nelle forme la realtà, chiudendola in un reticolo trasparente.
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Le fiabe non discendono dai cuori d’oro ma salgono dagli abissi delle nefandezze e dei crimini della nostra accidentata umanità. Vengono dai “bestioni” che ci precedono, e che noi ricapitoliamo nella nostra infanzia crudele (avete mai notato come i bambini possano essere spietati?). Le fiabe sono come sogni ad occhi aperti, fantasticherie che attingiamo ai nostri più remoti recessi: quelli a cui diamo storia e statuto attraverso i simboli di un universo infero e affollato, promiscuo. La verità è che della fiaba abbiamo ormai fatto una convenzione. Sbagliando pensiamo che sia il luogo delle dolcezze, a volte del birignao, spesso di un’ottusa e rassicurante banalità. E ne dimentichiamo le puzze, le punte aguzze, i coltelli affilati, lo stridore di denti, gli incesti allusi, le metamorfosi evocate, le commistioni imperdonabili, le radici dionisiache, l’eros che distilla il suo segreto mortale, la gran bolgia degli imbrogli e delle passioni, delle sepolture e delle sventure, delle metamorfosi e delle commistioni. Rospi e ranocchi, topi che diventano principi consorti, serpi e bisce che si convertono in fanciulle regali, animali parlanti, volpi, bufale, marmotte, lupi-zii e babbi-drago, orchi con le penne.
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Già ordinario di letteratura italiana presso l’Università del Piemonte Orientale “A. Avogadro”, Giovanni Tesio ha pubblicato alcuni volumi di saggi (l’ultimo, La luce delle parole, per Interlinea, nel 2020), una biografia di Augusto Monti, una monografia su Piero Chiara, molte antologie. Ha curato per Einaudi la scelta dall’epistolario editoriale di Italo Calvino, I libri degli altri (1991), che tornerà negli Oscar Mondadori in autunno come anticipo del centenario della nascita di Calvino. Sempre per Einaudi la conversazione con Primo Levi, Io che vi parlo (2016), cui sono seguiti, presso Interlinea, un volume di considerazioni su vita e opera di Levi, Primo Levi. Ancora qualcosa da dire (2018) e un volume complessivo, Primo Levi, il laboratorio della coscienza (2021). Sempre presso Interlinea un pamphlet in difesa della lettura, della letteratura e della poesia, I più amati. Perché leggerli? Come leggerli? (2012), e un “sillabario” intitolato Parole essenziali (2014), oltre alle due antologie, Nell’abisso del lager (2019), su poesia e Shoah, e Nel buco nero di Auschwitz (2021) su prosa e Shoah. La sua attività poetica, dopo esordi lontani, è sfociata nella pubblicazione di un canzoniere in piemontese di 369 sonetti, intitolato Vita dacant e da canté (Torino, Centro Studi Piemontesi-Ca dë Studi Piemontèis, 2017) e in due altri libri di poesia, Piture parolà (2018), tradotto anche in francese, e Nosgnor (2020). Nel 2018, presso Lindau, è uscito il suo primo libro narrativo, Gli zoccoli nell’erba pesante. È stato per trentacinque anni collaboratore de “La Stampa” e poi collaboratore della “Repubblica”. È condirettore della rivista “Letteratura e dialetti” ed è direttore della collana di poesia “Diramazioni” presso le edizioni Carabba di Lanciano. È tra i fondatori e direttori della collana di poesia “Lyra” presso Interlinea.