#1Libroin5W.: Giuseppe Nibali, “Animale”, Italo Svevo.

 “1Libroin5W”

Chi?

I protagonisti di questo libro sono Giuseppe e Sergio Nibali. Personaggi di assoluta fantasia. I due sono padre e figlio e vivono separati, il primo ha trent’anni e abita a Bologna, dove è nato e cresciuto, il secondo è invece tornato a Naxos, in Sicilia, dopo aver frequentato, a Bologna, il mestiere di professore di filosofia e i collettivi di sinistra extraparlamentare. Si scopre in apertura del romanzo che Sergio ha avuto un ictus e che per questo il figlio ha lasciato l’ufficio pubblicitario in cui lavora e ha preso un autobus per andare nella clinica dove il padre è ricoverato per la riabilitazione.

Cosa?

È un libro che parla di un padre e di un figlio. Ma quando ci ripenso questo rapporto mi appare sempre più sfumato, un cerchio che fatica a chiudersi, ed è bello che sia così. Ho cercato di raccontare i miei luoghi, naturalmente, ma anche, mi sembra, di tracciare un piccolo ritratto di questo strano tempo. Il libro è costellato da visioni, quelle del figlio, costantemente esposto ai venti dei social network, a una tensione pornografica nei confronti del mondo, che infatti non riesce a esperire se non attraverso le immagini che consuma. Ma ci sono anche le visioni di Sergio, immobilizzato nel letto e sedato, che ricorda, riflette, dibatte, intersecando continuamente vita presente e vita passata. Succede quello che sempre accade a due uomini che vivono una prossimità che non frequentano: ci si chiede perché, perché tutta quella distanza.

Quando?

L’aneddoto che mi viene in mente è quello che riguarda la dedica. Il testo è dedicato a Fafnir, con l’augurio che possa nascondersi anche dietro questo libro. Fafnir non è il drago della saga norrena, come potrebbe sembrare, ma uno gnomo che mio padre aveva comprato e che per un po’ è stato in bella mostra sulla sua scrivania. A un certo punto, una mattina, Fafnir è sparito, perduto, pensavo io, nascosto, mi ha detto mio padre quando gliel’ho chiesto e serio mi ha spiegato come fosse sua abitudine non star mai fermo e addirittura fosse una consuetudine diffusa presso il suo popolo, quella di costruire tane tra gli scaffali delle librerie, cercando rifugio dietro le pagine. Così in tutti gli anni successivi, a ogni rumore, a ogni piccolo cedimento del legno, nelle notti passate a leggere nello studio di mio padre, sapevo in qualche modo che Fafnir era lì e forse in lui partecipava ancora qualcosa di mio padre.

Ho sempre trovato questa storia perdutamente bella.

Dove?

È stato difficilissimo scrivere questo libro, mi dicono invece che sia facile leggerlo, e questo significa per me molto. Ho iniziato a lavorarci quando vivevo a Bologna per l’università e quella città è rimasta, ma poi il testo è cambiato molte volte. Gli interni che appaiono sono rubati un po’ dai ricordi della mia burrascosa vita familiare e un po’ dalla mia attività di ricerca. Ci sono i libri, c’è il comunismo, la guerra, internet, gli animali, soprattutto, per cui ho da sempre una fissazione monomaniacale. È un libro pieno di passanti, da figure che ho potuto spiare nel corso della mia vita. La clinica stessa è un ammasso di ricordi. Altre cose le ho cercate: Sergio, il padre, è una composizione di figure diverse tra cui mio padre e uno dei leader di Potere operaio, che ho intervistato a Bologna.

Perché?

Io non lo so perché si scrivono i romanzi. Sto cercando di capirlo, in effetti. Mi pare un discorso più facile in poesia: scrivere solo ciò che è necessario, dire fino a un certo punto e poi non dire. Darsi un tempo. So di essere poco chiaro. Mi riferisco alle esigenze, che sono diverse, credo che in prosa si scriva per raccontare, come diceva Tadini in Eccetera, che abbia tutto a che fare col raccontare. Io volevo raccontare, verbalizzare, portare ai lettori una storia che intrecciasse la guerra e l’animale che la fa. La guerra contro il diverso, contro il figlio, contro il padre e poi descrivere bene i contorni dell’uomo del mio tempo, nelle sue fissazioni, nelle sue vergogne. Noi dobbiamo raccontare l’ossessione e i personaggi principali di questo testo sono tutti ossessionati da qualcosa. Non è un caso, in tema di ossessioni, che io abbia deciso di esordire in prosa con un testo che parlasse di un padre e di un figlio.

scelti per voi

Un ululato, poi un secondo e un terzo, poi ecco il coro. Viene fuori dal buio, non dà tregua. Solo non è seguito dai corpi, non entrano in scena i lupi. La prima voce è quella del capobranco, che ulula tre volte. È la sua la nota più intensa. Si potrebbe pensare che sia stato lasciato solo, che si lamenti, ma subito si capisce che quella solitudine significa rispetto. I lupi armonizzano l’ululato su quella nota, e sembra che siano molti, che siano più di loro stessi. Se il capobranco smette, è la chiusa del coro.

Altri secondi di nero, poi il buio si apre al colore dell’argilla. Arriva il giallo delle rovine. Si mostra uno scavo archeologico. Forse delicati reperti e nuovi tesori stanno emergendo, oppure le croste di un’epoca sparita. I latrati coprono tutto, è difficile capire: macerie umane, dall’alto, segnano il dorso di una creatura abissale. Appare così il corpo devastato della città. Quello che doveva essere stato un multipiano adesso è una grande scatola vuota in cemento e ferro, uno stomaco di trenta metri, senza porte né finestre.

Le auto che una volta lo ingrassavano sono sparite, risucchiate sul fondo dai bombardamenti. Dall’alto se ne intravede solo una, giallastra, resa irriconoscibile dalla sabbia che l’ha divorata. Poco distante, una costruzione recente che stona con il paesaggio. È elegante, geometrica, tirata su da non più di dieci anni.

L’appartamento superiore, al terzo piano, è esploso, i due piani inferiori sono quasi completamente diroccati. In mezzo ai due edifici doveva esserci un bazar, il tendone ha resistito finché ha potuto, poi ha ceduto sotto il peso delle macerie, e adesso se ne sta sulla strada, come un circo crollato sul pubblico. Una nuova via. Una nuova via è nata tra gli scheletri delle case.

Gli ululati continuano mentre il drone procede veloce. Inquadra un altro palazzo, forse un condominio, sulla destra. È enorme. Sul tetto c’è un tavolo e accanto ci sono cacti e piante cresciute tra le macerie. Ancora un edificio, il più grande ripreso finora. I calcinacci e la sabbia ne hanno sigillato le finestre, la bomba che lo ha sventrato è caduta perpendicolare, ha incrinato le vertebre di ferro che lo reggevano, così il palazzone è crollato sul fianco e poi è rimasto ad agonizzare. Cambia l’inquadratura. Il drone si è spostato sulla strada principale. Su quella che era la strada principale e che adesso è calcestruzzo. Ci camminano gli uomini, se ne contano cinque, paiono formiche, le loro ombre sono macchie nere che si allungano al sole e spariscono dentro le case. Hanno paura di altri crolli, per questo si sparpagliano sul disastro.

Gli ululati non smettono, per tutto il video van- no e vengono senza mai tacere. Si possono qua- si immaginare, i lupi. Un branco intero: quattro, sei esemplari. Le loro urla riecheggiano nelle orecchie degli uomini che setacciano la città, accanto alle palme, dentro i rimorchi dei camion, attentissimi a non cadere nei crateri colmi di acqua colore acido.

Il drone prosegue per poi spegnersi nel buio. Il canto degli uccelli del paradiso sovrasta il branco, prendendone il posto. Lo schermo del telefono ritorna nero e compare la scritta: Animale, Aleppo est, 2016, seguita dai titoli di coda.

Chi ha montato il video è uno bravo, ha occhio e orecchio per il poetico, pensa Giuseppe, ma non ha immediatezza, il suo lavoro può annoiare, soprattutto se lo spot integrale dura più di due minuti. Questo pensa, e altre cose, mentre alza lo sguardo e dal finestrino coglie l’ultimo sole di un pomeriggio di novembre che sparisce dietro la stazione di servizio di Galdo, dove il pullman ha fatto una sosta. Ha preso un panino all’autogrill Tevere Ovest, cinque ore prima, ma la cotoletta gli ha fatto male, così adesso non ha voglia nemmeno di scendere per andare a pisciare.

Il corridoio è illuminato, i suoi compagni di viaggio cominciano ad affollarlo mentre indossano i giubbotti. Durante il tragitto, nessuna schermaglia, nessuna ressa. Hanno sempre parlato tra loro a bassa voce, come se ci fosse un segreto da passarsi e custodire, un segreto che Giuseppe non poteva conoscere. Circa la metà è scesa tra Firenze e Napoli. Nessuno di quelli rimasti, pensa, toccherà le coste della Sicilia, si sparpaglieranno via via, tra Rosarno e Villa San Giovanni.

Il pullman riparte dopo neanche venti minuti. Tra poco saranno a Cosenza, e da lì una serie di tunnel e di gallerie che ulcerano la Calabria fino al mare. E oltre l’abisso, l’isola.

Sta andando da suo padre. Finalmente potrà entrargli dentro la testa, scavare tra le macerie, separare le parti vive da quelle morte. Il buio vuole cercare, quello che la distanza ha covato, e che l’ictus ha poi reso libero.

Il telefono è quasi scarico e le prese non funzionano. Gli rimane il dieci per cento di batteria, si spegnerà prima di arrivare in Sicilia. Anche questa è una cosa che pensa insieme alle altre, mentre fa partire di nuovo il video, per risentire gli ululati cedere il passo al cinguettio degli uccelli, e rivedere Aleppo, ancora una volta, con le sue crepe e le sue buche, e quindi il buio che si porta via la città distrutta. 

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