#1Libroin5WPoesia.: Giovanni Tesio, “Paròla, amisa mia”, Interlinea.

#1Libroin5WPoesia

 

Chi?

Il chi questa volta viene dai libri, viene dalla lettura, sono loro i protagonisti del mio libro di poesia. Sono gli impulsi, le sollecitazioni, le occasioni che vengono dalle letture che a ciascuno di noi capita da fare. Quello che io chiamo: riscaldarsi ai versi altrui, e dico versi in senso molto lato, perché non tutto viene da altri poeti e da altra poesia, ma molto viene invece dalla prosa, dai saggi, dai romanzi, da tutto ciò che s’impone o si propone al nostro sguardo animando il desiderio di sviluppare un pensiero in cui ci si sia imbattuti, oppure chiosando un’emozione da cui si parta per prendere altro vento, altro cammino. Questo libro, infatti, doveva intitolarsi nelle mie intenzioni Dapress, ossia dappresso, da vicino, in prossimità, ma poi l’editore – non convinto che il titolo fosse appetibile – mi ha consigliato di cercarne un altro, e ci siamo accordati.

Cosa?

Il “cosa” della poesia, che è sempre risonanza interiore, scoperta di nodi nascosti che nella parola cercano non dirò il loro scioglimento ma di certo la loro riflessione. In me – se ci penso – è sempre in atto un moto di riflessione, riflessione di vita, riflessioni di occasioni che la vita offre e da cui si parte per piccoli viaggi di approfondimento, di carotaggio sentimentale, morale, intellettuale, un circuito in cui ogni parte è fusa con le altre in una sorta – nei momenti più riusciti – di fusione poetica ad alta gradazione. Quel “cosa” avvicina alla “parola” e dà un senso al titolo, Paròla, amisa mia. Amica la parola, ma non sempre, perché ci si ingaggia in una serrata lotta espressiva, che ovviamente coinvolge la scelta del mezzo, che è per me il mio piemontese. Poesia come processo resistente di un’amicizia strana, di una difficoltà, a volte persino di un’impossibilità. Proprio per questo parlo di lotta serrata: “O parola, o tu parola che mi manchi(Arnold Schönberg, Moses und Aron). La parabola del silenzio, del silenzio gremito di Satana e di Dio.

Quando?

Direi da quando ho pensato di dare voce a un moto che risale addirittura – e non vaneggio – alla mia infanzia, quando scrivevo poesie d’occasione, cui il mio maestro aggiustava la metrica. Curioso, in ogni caso, che fin da allora, io tentassi le forme chiuse, e come non abbia mai abbandonato le contrainte. Questo è forse aneddotico, ma è del tutto veritiero. Mi piacciono le contrainte perché sono inventive, inventano sé stesse, si muovono verso illuminazioni impreviste, generano corto circuiti, creano a contatto piccoli mondi in cui i sentieri si inoltrano sorprendentemente. Tutto è cominciato tanto tempo fa, come in una specie di fiaba, ma poi il punto di svolta è stato quando ho cominciato a scrivere poesie natalizie in italiano e in piemontese, scoprendo la concretezza immaginosa di una lingua da cui più mi lasciavo prendere più mi nutriva. Dopodiché non ho smesso più.

Dove?

Il dove è dapprima un paese alla confluenza del Pellice (quello delle valli valdesi) e del Po. Un paese che si chiama Pancalieri, ma che potrebbe essere invece chiamato Memoria, la memoria – ancora una volta – dei miei anni infantili. Io vengo da una famiglia di contadini che parlano il loro piemontese nella quotidianità ed è stato quel piemontese la prima lingua che ho conosciuto; l’italiano lo sentivo in chiesa misto al latino in cui ancora si dicevano le messe, e l’ho imparato soprattutto a scuola, amandolo di pari amore, ma avendone minore dimestichezza. Così, in quel “punto di svolta” l’ho rivissuto poeticamente in me, l’ho arricchito di apporti nuovi, ne ho fatto la mia “lingua di poesia”.

Perché?

L’ho scritto a chiare lettere nell’intervista che ho rilasciato a Renato Pennisi e che fa da appendice al libro. Una sorta di dichiarazione di poetica. Perché? Perché non sono un metafisico. Per me Dio è consistenza. Ho davanti la concretezza visionaria di Van Gogh e a me piacerebbe – non per moda, cui spesso si soggiace, volenti o nolenti – immergere la parola nell’impasto della vita, nella fisicità apparente delle cose, di cui vorrei rovesciare le fodere. Leggo un’invettiva di Bernanos nel suo primo e forte romanzo, Sotto il sole di Satana, in cui – modellando le sue pagine sul santo d’Ars – Bernanos trova modo di scagliarsi contro quelli che chiama le “bocche in lirismo”, ossia contro i cuoricini e le boccucce di zucchero dei più vani “incettator d’oblio”, come avrebbe detto Alfieri: quelli che fingono lotte che non vivono, i vaniloquenti che si beano delle loro blasfemie da quattro soldi, di cui Satana ride, lontani come sono da quel merito d’odio che il Nemico solo può riservare come privilegio ai santi veri, ai veri lottatori, ai grandi atleti del crocifisso (e del resto la polemica contro i poeti dello zuccherino, più che contro la poesia come tale ha vita duratura, e congiunge i secoli, dal Berni all’Alfieri, da Gombrowicz a Auden e oltre). Perché alla fine il punto è poi questo: scrivere per necessità, scrivere per dare voce alle proprie ossessioni: non dunque tanto per allontanare la morte con cui si può imparare a convivere, ma per vincere il tempo, ossia di fatto l’impossibile. Una lotta serrata che non ammette mezzucci e astuzie, la facile e infida notorietà dei giorni, la natura ambigua della fama da nulla.

Scelte per voi

La “via difficile” di Rilke

A l’é che forse la mia stra a smija
fàcil, e che soné ‘d sonèt a sia
da òm dësgiust, da nen poeta, e a sia,
se mi ston sì stërmà, pà ‘d baterìa.

Se mai la batarìa ‘d mie paròle
ch’a ven-o da n’àut mond, dij dësmencià,
e che diso fasand le mie giròle
drinta j’arsòn ëd la mia lenga ‘nflà,

fàita ‘d caluso, tuta scarpëntà
che gnun a scota pì, che pì as sa nen,
e i son mach mi ch’i-j fass ëncor la vijà

prima ch’as sara ‘ndrinta soe parpèile
e as na von-a ‘nsema a tut nòst fen,
ënsema al lontan làit ëd nòste stèile.

Traduzione

È che forse la mia strada sembra/ facile, e che suonar sonetti sia/ da uomo sbagliato, da non poeta, e sia,/ se io sto qui nascosto, nessuna grancassa.// Se mai il ciarpame delle mie parole/ che vengono da un altro mondo, dei dimenticati,/ e che dico facendo le mie giratine/ dentro le risonanze della mia lingua sporca,// fatta di fuliggine, tutta scarmigliata/ che nessuno ascolta più, che più non si sa/ e ci sono soltanto io che le faccio ancora la veglia// prima che si chiuda dentro le sue palpebre/ e se ne vada insieme a tutto il nostro fieno,/ insieme al latte lontano delle nostre stelle.

Parola, stai al nostro fianco
tenera di pazienza
e d’impazienza
(Ingeborg Bachmann)

Paròla, mia morosa, sette sì,
stame da fianch e vija sì con mi,
ch’i son nen sempe adat, perdo l’orient,
e scheuvro che mach ti t’ëm fass content.

Am piass che t’ëm carësse come it fass
che tëndra dai tòj euj na golà ‘d vent
a ven-a a feme gòj, a deme pas,
a vempe la mia anvìa ‘d sentiment.

Ma chërte ne ch’it veubia mach parèj
përchè i é ‘d vòte che se ‘d ti l’hai sèj
ti të slontan-e e it vass i sai nen doa

e mi sento che ‘d ti peuss nen fé sensa.
Ma alora sette sì, pa mach ën broa,
che ij nòsti dij as toco, as fasso smensa.

Traduzione

Parola, mia amorosa, siediti qua,/ stammi di fianco e vegli qui con me,/ che non sempre sono adatto, perdo l’oriente,/ e scopro che soltanto tu mi fai contento.// Mi piace che tu mi accarezzi come fai/ che tenera dai tuoi occhi una sorsata di vento/ venga a darmi gioia, a darmi pace,/ a riempire il mio desiderio di sentimento.// Ma non credere che ti voglia solo così/ perché ci sono volte che se di te ho sete/ tu ti allontani e vai non so dove// e mi sento che di te non posso fare senza./ Ma allora siediti qui, anche solo sull’orlo,/ che le nostre dita si tocchino, si facciano seme.

O poesia,
Non posso impedirmi di chiamarti
Con il tuo nome che non si ama più tra quelli che errano
Oggi tra le rovine della parola.
(Yves Bonnefoy)

Nò, son bin convint, l’é mai finìa
combin che moribonda a smija sì ‘ncheuj
tuta faussà da tanta batarìa
ch’a fa ‘d fracass e a viv ëd batibeuj.

Ma i é pa gnente ch’a peussa fërmé
la rason pì përfonda dël sò esse
se drinta l’esistensa a deuv passé
ma mai ‘n tl’esistensa a peul fërmesse.

A ven da tan lontan e a va lontan
va bin pì ‘n là ‘d j’antrap ch’a l’angarbojo
e a vincc tuj ij garboj che ‘ndrin la rojo.

Lassoma ch’a s’ësfògo ij ciaciaron
ch’a fan le ciaciarade ‘n tij sò slam
përchè l’é nen ëd chila ‘ndé a baron.

Traduzione

No, sono convintissimo, non è mai finita/ benché, sì, oggi sembri moribonda/ tutta falsata da tanta paccottiglia/ che fa rumore e vive di confusione.// Ma non c’è nulla che possa fermare/ la ragione più profonda del suo essere/ se dentro l’esistenza deve passare/ ma mai nell’esistenza può fermarsi.// Viene da molto lontano e va lontano/ va molto più in là degli ostacoli che l’ingarbugliano/ e vince tutti i grovigli che dentro la rimestano.// Lasciamo che si sfoghino i chiacchieroni/ che fanno chiacchiere nei loro slam/ perché non è di lei andare a catafascio.

Si deve preferire
la ruga al liscio
(Eugenio Montale)

Tut lòn l’é mej ch’a l’é pì grotolù
ëd tut lòn ch’a l’é seule, tenlo a ment,
përchè la vita a l’é n’enjambement
che mai finiss ëd fé sòj sàut fotù.

A basta vive n’ora për capì
che vita l’é na stra pien-a ‘d përtus
e che soe pen-e a pòrto tuj ij dì
ch’as mës-cio a le soe gòj, a j’ëspatuss.

Oh, rupia, ch’it compagne la viejëssa,
e tl’has giumaj vempime ‘l mè còrp tut
fasandme gnente bel e pitòst brut,

mi veuj pa dì ch’it preferissa al seule,
ma deuv cò rendme cont, bela franchëssa,
che ti ‘t ses com l’asìl ‘ndrinta a l’eule.

Traduzione

Il meglio è ciò che è più rugoso/ e tutto ciò che è liscio, tienilo a mente,/ perché la vita è un enjambement/ che mai smette di fare i suoi salti fottuti.// Basta vivere un’ora per capire/ che vita è una strada piena di buche/ e che le loro pene portano tutti i giorni/ che si mescolano alle gioie, agli spassi.// Oh, ruga, che accompagni la vecchiaia/ e hai ormai riempito il mio corpo tutto/ facendomi per niente bello e piuttosto brutto,// io non voglio mica dire di preferirti al liscio,/ ma devo pur rendermi conto, bella franchezza,/ che tu sei come l’aceto dentro l’olio.

Emily Dickinson,
“ I dwell in possibility”

La poisìa a sta drinta soa gabia
përchè canté a l’é la soa natura
canté la libertà fòra dë mzura
canté con nostalgìa e sensa rabia.

Da ‘ndrin vardesse ‘n gir a fa për chila
e cheuje ‘n tut j’arson, livrand soa ìvola
che al feu dla corsa a slansa soa cantà
fasand travers la gola la calà.

La poisìa l’é sempe e sì e là
e ‘ndrin e fòra e sota e dzor e ‘ncora
përchè a possela a l’é Necessità.

La poisìa l’é fàita ‘d tut e ‘d gnent
ma a ven da na frission ëd cheur e ‘d ment
se l’erca a l’é dla Possibilità.

Traduzione

La poesia sta dentro la sua gabbia/ perché cantare è la sua natura/ cantare la libertà smisurata/ cantare con nostalgia e senza rabbia.// Guardarsi di dentro in giro fa per lei/ e cogliere in tutto i suoni, liberando la sua ugola/ che al fuoco della corsa lancia il suo canto/ facendo lungo la gola il suo sentiero.// La poesia è sempre e qui e là/ e dentro e fuori e sotto e sopra e ancora/ perché a sospingerla è Necessità.// La poesia è fatta di tutto e di niente/ ma viene da una frizione di cuore e di mente/ se è l’arca della Possibilità.

è incredibile,
come incredibile
è credere.
(Cesare Viviani, Osare dire)

Se chërde a l’é l’arzigh ëd na scomëssa
për chërde ‘ntoca esse giugador
e col arzigh viré ‘n t’una promëssa
ch’a l’é na conversion tuta interior.

Mi sai pa dì da bin se chërdo o pa
përchè l’hai tròpi dubi ‘n confusion
ma ‘d sìcur l’hai chërdù tanti ani fa
cande da cit fasìa ‘l comunion.

Ma ‘l chërde da catolich l’é funì
e penso or pitòst a n’infinì
ch’am serca coj sò brass da Pare tut:

e mi ch’im perdo drinta ‘d Chiel smasì
an t’un-a gòj ch’a vincc tuj ij dolor
an tël bon vent, da savi giugador.

Traduzione

Se credere è l’azzardo di una scommessa/ per credere bisogna essere giocatori/ e quell’azzardo virare in una promessa/ che è una conversione tutta interiore.// Io non so bene se credo o no/ perché ho troppi dubbi in confusione/ ma di certo ho creduto tanti anni fa/ quando da piccolo facevo le comunioni.// Ma il credere da cattolico è finito/ e penso adesso piuttosto a un’infinito/ che mi cerca con le sue braccia da Padre tutto:// e io che mi perdo dentro di Lui sciolto/ in una gioia che vince tutti i dolori/nella buona fortuna, da saggio giocatore.

“Sì, come diceva/Acete: ‘Sono sicuro/
che in lei abita un Dio”
(Clinia di José María Alvarez)

L’amor l’é n’aquilon ch’a vòla àut
s’a i é ‘l vent ch’a lo possa e a lo sosten
ma ‘dcò a l’é ‘n delfin che ‘n mar a ven
a salvé chi ‘n tla fàula a fa sò sàut.

L’amor l’é mai sogèt a la derota
e a va sempe cantand la soa canson
e cand a canta chiel l’é n’emossion
ch’a vincc tute ‘l corasse e ch’aj forata,

se mi l’hai vistla ‘n dì, n’aparission,
e son ëstàit portà ‘n tut n’àut mond
cha-i era ‘n chila: ‘n poss ëd perfession.

Chila am parlava dal pì ciair dij fond:
ën chila ‘n Dé e chila ‘n sël delfin
volava ‘n sl’eva, am volava ‘ndrin.

Traduzione

L’amore è un aquilone che vola alto/ se c’è il vento che lo sospinge e lo sostiene/ ma è anche un delfino che in mare viene/ a salvare che nel mito fa il suo salto.// L’amore non è mai soggetto alla disfatta/ e va sempre cantando la sua canzone/ e quando canta lui è un’emozione/ che vince tutte le corazze e che le buca,// se io l’ho vista un giorno, un’apparizione,/ e sono stato portato in tutt’altro mondo/ che c’era in lei: un pozzo di perfezione.// Lei mi parlava dal più trasparente dei fondi:/ in lei un Dio e lei sul delfino/ volava sull’acqua, mi volava dentro.

 

 

in copertina foto di ARDUINO BAIETTO

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