#1Libroin5Wpoesia.: T.S. Eliot, “La terra desolata”, a cura di Rossella Pretto, traduzione Elio Chinol, InternoPoesia.

 

Chi?

Un mosaico di voci che il poeta inglese accosta e fa parlare senza soluzione di continuità. Voci che si rincorrono e si fondono l’una nell’altra incardinandosi poi attorno alla mitica figura di Tiresia. Il cieco indovino tebano assolve così la sua funzione di testimone che riattualizza vicende diventate archetipiche e permette loro di riaccadere e incarnarsi ancora. T.S. Eliot dipana un’intera tradizione mettendo in scena personaggi della mitologia classica (come Procne e Filomela, con la loro tragica storia), accostati a quelli delle sacre scritture (la Bibbia, ma anche testi della spiritualità orientale). Trovano posto poi figure inerenti ai riti della fertilità e all’indagine intorno al Graal, che Eliot aveva tratto dalla sua lettura del Ramo d’oro di Frazer e da From ritual to romance di Miss Weston. In questo caso, prende molto rilievo il Re Pescatore in cui coagula la desolazione del mondo: quello interiore e quello esteriore. Ma nel poemetto c’è spazio anche per i caratteri del teatro inglese, quelli di Shakespeare su tutti, con Ferdinando della Tempesta, la povera Ofelia di Amleto o la sontuosa Cleopatra. La terra desolata è insomma una scatola ottica che ci restituisce un mondo e lo rivivifica senza tenere conto di spazi e tempi diversi, rendendoli, anzi, tutti nostri contemporanei.

Cosa?

Il Re Pescatore, custode del Graal, è malato (ferito, menomato). Lo è anche la sua terra, trasformata in deserto (desolata, guasta). Egli passa il tempo pescando lungo un fiume nei pressi del suo castello. Molti cavalieri tentano di curarlo, ma ci riuscirà solo il predestinato a trovare la Sacra Coppa. Se il motivo di fondo della Terra desolata è stato concepito pensando a questo nucleo del ciclo arturiano, possiamo certamente comprendere come sia centrale il tema dell’aridità spirituale che cerca redenzione (uno sbocco, una speranza). Il mondo di Eliot è fuori dai cardini, esce dalla Prima guerra mondiale, si confronta con la Spagnola che, insieme alla guerra, ha decimato la popolazione privandola dei suoi giovani. L’Europa è un immenso cimitero. Il poeta, poi, è oppresso da una crisi personale che lo porta ad abbandonare il lavoro per tre mesi. Riesce a rimettersi in sesto solo grazie all’aria di Margate e alle cure del dott. Vittoz. E grazie alla scrittura di un poemetto che, come ebbe modo di dire, costituisce per lui «il sollievo di una personale e del tutto insignificante la­gnanza contro la vita». Deve ritrovare il centro, riportare tutto in equilibrio. Come fa Eliot? Puntella le sue rovine con i frammenti di una cultura che lo aiuta a orientarsi, ne fa una sorta di mappa molto significativa che agisce come un archetipo (è il “procedimento mitico”). E l’archetipo si riattiva al momento giusto. Questa la sua ricetta. Eliot dunque puntella le proprie rovine con questa mappa culturale e cerca di onorare la sacralità della vita, confidando nella rinascita. Cerca, insomma, una pace che superi la comprensione.

Quando?

La riedizione di InternoPoesia è nata dal desiderio di onorare due centenari: quello della pubblicazione del poemetto eliotiano (ovviamente), che uscì 100 anni fa, in ottobre, sulla rivista «The Criterion» (seguita poi dalla rivista americana «The Dial» e dalla pubblicazione nella patria originaria– in Inghilterra, invece, il libro uscirà solo nel 1923 grazie alla Hogarth Press dei Woolf) e quello di Elio Chinol, che nacque a Treviso proprio nell’ottobre del 1922. Elio Chinol tradusse La terra desolata a cinquant’anni dalla sua uscita, nel 1972, in un’edizione d’arte a tiratura limitatissima con i disegni di Ernesto Treccani, unico ad aver illustrato l’opera. Chinol aveva incontrato Eliot nell’estate del 1948, a Londra, grazie a una lettera di presentazione che gli diede Eugenio Montale. All’epoca, Eliot aveva già scritto i Quattro Quartetti, che infatti regalò al suo giovane intervistatore, dedicandoglieli. Dopodiché il poeta si diede al teatro. Questa operazione, ancorché avere una sua precisa ragion d’essere nella riproposizione di un capolavoro della modernità, ha anche una chiave di volta tutta personale: il desiderio profondo di una nipote di rendere omaggio al tanto amato nonno, di cui poco ha potuto godere. Questo libro, dunque, è anche un piccolo atto d’amore innestato nel solco di quella tradizione salvifica di cui Eliot si è fatto carico (come Enea si è caricato sulle spalle il padre) per ricomporre uno scenario in frammenti.

Dove?

La terra desolata è stata scritta tra Londra, Margate, il lago di Ginevra e Parigi. Eliot l’aveva in animo da un po’, ma solo con la pausa forzata dal lavoro riuscì a metterci mano in maniera definitiva. Quelli citati sono inoltre i luoghi che possiamo attraversare nella lettura del poemetto. Vediamo infatti una Londra nebbiosa, scura, con le sue folle di pendolari come spiriti in pena (i dannati danteschi), sfumare nella Parigi dove, da giovane, Eliot aveva intrecciato un’amicizia fenomenale con Jean Verdenal, morto al fronte e più volte evocato. Una Parigi dove si era rifugiato Ezra Pound, il miglior fabbro che aiutò il poeta a portare a compimento il suo poemetto. Margate, la località turistica nel sud dell’Inghilterra dove Eliot passò qualche tempo per respirare aria buona, viene citata nel finale della terza sezione, prima che i versi dichiarino apertamente lo smarrimento totale in cui T.S. è stato gettato. Il lago di Ginevra, infine, fa da sfondo al poeta che siede a piangere dopo che ha invocato il Tamigi chiedendogli di scorrere tranquillo finché lui non abbia finito il suo canto.  Ricordiamo che il Tamigi è anche il fiume da cui prende le mosse un altro capolavoro, Cuore di Tenebra di Conrad, che avrebbe dovuto fornire l’epigrafe scelta da Eliot per aprire il suo lavoro. L’acqua, insomma, ci fa inoltrare in luoghi dove il male suppura e l’uomo deve cercare una via d’uscita. Se non altro, deve tentare un attraversamento. Tutti questi spazi intrecciati insieme formano la tela su cui si proietta il film eliotiano: quello che parla di una crisi vissuta fin nel midollo e che non concede tregua, ma che viene utilizzata per comporre un senso che parli a tanti, anche a 100 anni di distanza.

Perché?

I riti dell’attraversamento e della purificazione hanno sempre bisogno di essere esperiti e attualizzati per funzionare. Per innescare appunto la catarsi, in maniera organica e sorprendente. Se è vero che l’immersione nelle sabbie mobili di un mondo fuori di sesto può sturbare, è altresì vero che grazie a questo “sacrificio” possiamo sperare di rivedere le stelle. È un percorso. Anche Dante iniziò dall’inferno. Ed è ciò che successe a Eliot, in crisi spirituale, personale e religiosa. Donandosi completamente all’esperienza della siccità, il poeta riuscì a domare il deragliamento della mente e riportarlo su un binario che l’avrebbe poi condotto alla piena adesione a un ordine di valori per lui necessari alla sopravvivenza e alla fede. La terra desolata si conclude infatti con quell’invocazione buddista alla pace che supera la comprensione di cui abbiamo sempre più bisogno. Ecco perché leggere ancora La terra desolata e leggere poesia: per compiere un rituale di purificazione dei sensi, liberarsi dalle scorie di un mondo meschino e rinvigorire l’animo di chi voglia compiere decorosamente il suo destino. Nessun discorso consolatorio, ma una possibilità in più di compiersi e discendere, come direbbe James Hillman. Un altro motivo per leggere il libro? Per vedere il poemetto eliotiano dispiegarsi davanti a noi come fosse un film. Nella postfazione, infatti, si prende come griglia ermeneutica la novità del cinema sovietico degli anni ’20, contemporaneo alla composizione della Terra desolata. I cineasti russi erano intenti a indagare l’essenza del cinema per ritrovarla poi nel montaggio. Nel saggio finale, allora, la curatrice mostra un inedito regista al lavoro sul set: è Tiresia che, con i suoi occhi ciechi, vede ben al di là del consueto.

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Scelto per voi

[Dalla sezione I, La sepoltura dei morti]

Madame Sosostris, la famosa indovina,
Aveva un forte raffreddore, tuttavia
È nota come la più saggia donna d’Europa
Col suo diabolico mazzo di carte. Ecco qui, disse,
La vostra carta, il Marinaio Fenicio annegato,
(Sono perle ora i suoi occhi. Guardate!)
Ed ecco Belladonna, la Signora delle Rocce,
La Signora delle situazioni.
Ecco l’uomo con le tre aste, ed ecco la Ruota,
Ecco il mercante monocolo, e questa carta,
Che è bianca, sta per qualcosa che porta sulla schiena,
E m’è vietato di vedere. Non trovo
L’Impiccato. Guardatevi dalla morte per acqua.

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[Dalla postfazione, Un certain regard]

[…] Ma ecco che subito la macchina da presa si sposta in interni. Dobbiamo proprio andare da lei. Andiamo da Ma­dame Sosostris. L’immagine si apre pian piano dal detta­glio strettissimo del mazzo dei tarocchi. Se vogliamo farci suggestionare dal viaggio proposto dobbiamo e possiamo utilizzare anche qualche altro elemento filmico inerente a quegli anni. Prendiamo, ad esempio, Il Dottor Mabuse, film di Fritz Lang del 1922, guarda caso, che racconta le vicen­de di un medico psicoanalista considerato come una vera e propria incarnazione del male. Egli è infatti capace di impadronirsi di ingenti fortune con i mezzi più biechi, riu­scendo a manipolare tutto, individui e situazioni. Le prime inquadrature del film mostrano una mano che dispone a ventaglio alcune fotografie tratte da un mazzo posto su un tavolo da toeletta. Queste “carte” ritraggono tutte il dottor Mabuse nei suoi vari travestimenti. La mano di Mabuse le mischia come carte da gioco, ne sceglie una e la consegna al suo truccatore perché esegua il camuffamento prescelto. Il montaggio del film è spesso veloce e sottolinea la quasi simultaneità degli avvenimenti, mentre i processi psicolo­gici vengono esteriorizzati. Ma è solo un suggerimento che ci giunge.

Raffreddata e carte alla mano, la nostra Madame Soso­stris dispiega sul tavolo il futuro. Di chi? Non lo sappiamo, non vediamo in controcampo nessuno. C’è solo lei che riempie l’inquadratura. Ci sono solo le carte che si squa­dernano con tutti gli echi che evocano e che risuonano nella stanza rimbalzando tra carta e carta. […]

Rossella Pretto (in copertina nella ph. di Mario Cecconi) laureata al Dams di RomaTre con una tesi sulla traduzione del Macbeth curata da Elio Chinol per la ‘Compagnia dei Quattro’, ha proseguito la sua formazione con esperienze in campo recitativo e teatrale. Il suo primo poemetto, Nerotonia, anch’esso ispirato al Macbeth, è uscito nel 2020 (Samuele Editore). Con Marco Sonzogni ha curato Memorial di Alice Oswald (Archinto 2020) e Speranza e Storia. Le quattro versioni sofoclee di Seamus Heaney (Il Convivio Editore, 2022). Ha curato l’edizione di InternoPoesia della Terra desolata uscita nel 2022. È presente in alcune antologie, con sue poesie e traduzioni. Suoi articoli sono apparsi su «Alias-Il Manifesto», «Poesia», «L’Ottavo», «Journal of Italian Translation», «Studi Cattolici» e «L’Estroverso».

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