Una vita. Cos’è una vita? Bella domanda. A cui forse, senza pretese, la poeta Alaimo ha voluto dare una risposta. Sì, perché non va mai trascurata l’esigenza che spinge un poeta al suo dovere. E leggendo questi sette poemetti ho avuto subito la percezione di qualcuno che lascia degli insegnamenti. Ma non per via di un qualche autoritario tono poetico, non c’è nessuna cattedra, ma per la profondissima umanità di ogni singolo verso. La poeta ha voluto fare un viaggio indietro. Ma la sua “Recherche” non è quella malinconica di un tempo perduto, ma al contrario quella salvifica di un tempo vissuto. Perché solo questo possiamo chiamare vita, ovvero l’aver partecipato in prima persona trasformando i fatti in esperienza. E questi poemetti sono ciò “L’angelus novus” ha salvato dalla distruzione. Sono il passaggio, il testimone. Sono i segreti svelati, le paure conquistate, i dolori che smettiamo finalmente di chiamare con un altro nome, gli amori a cui perdoniamo d’aver detto addio, sono conquiste e cicatrici, sono le volte in cui, parafrasando, abbiamo tremato di fronte alla gioia. E mi piace pensare che siano la pace. La pace di chi c’è stato, ha lottato, non si è arreso. Di chi se è caduto, si è rialzato. Il libro prosegue con un’altra sezione dal titolo “Frammenti”. Forse io, prendendo a prestito un po’ del buon umore futurista, l’avrei chiamata “Libero dizionario poetico”. Perché ad ogni parola, la poeta fa seguire una piccola nota poetica. Mi piace perché molto svela di questo approccio che tutti chiamiamo poesia. Mostra come le cose siano in realtà spunti vettoriali verso altre dimensioni del nostro sentire. Buona lettura.
Con la bocca piena di luce
Il mio corpo adolescente
era una casa di clausura
con un caldo tropicale
e sogni vaneggianti.
L’anima vi abitava
come un cardellino fiammeggiante
che abbiano accecato perché canti
più disperatamente
ma anche così dolcemente
che sentirlo è come immaginare
un aldilà magnifico.
Una casa con molti muri e stanze
e il giardino dei fiori d’oro dell’infanzia.
Pestavo un’erba magica nel frantoio
per risvegliare i giorni della gioia.
Il mare era incastonato
nel mezzo della carne
come un lapislazzulo blu,
la mente delirante,
la sabbia morbida, ardente.
Il mio castello è quello più alto
con bandiere di carta e ponti levatoi
fatti con stecche di ghiaccioli.
E il mare non è quello reale,
il tempo non è quello reale,
ma un altro dove volare arditamente
come un uccello misterioso
che non si ferma mai.
E non so che profumo di gelsomini
vi penetra certe sere
con una voce troppo leggera
di bambino:
andiamo, laggiù ce ne sono tanti.
Dammi la mano. Senti?
Ancora ci muoviamo nella luce lunare
che ci schiara le dita
e si specchia tranquilla
nell’acqua di un boccale
lasciato sopra il tavolo, all’aperto.
E il canto dei grilli fa un’onda così lunga
da attraversare il tempo.
C’era una volta. C’era una bambina
con una corona di latta sopra il capo
che giocava con il mondo
e lo ammirava stupita.
Che spoliazione infinita!
Quanto barbari sono i maestri.
Come grida il cuore:
Non devo dire questo,
non devo fare questo,
Sono una donna,
sono un animale muto.
Sono una menzogna.
Una gola di cera molle
dove tutti imprimono i pollici
per cacciare indietro la mia voce.
Sogno tutte le notti
un uomo che m’insegue con un coltello
affilato e lucente,
ed io ho paura che mi prenda.
Madre delle vergini, aiutami!
Io sono un vaso di vetro.
Un vaso che traspare come l’acqua.
E poi viene quella cosa rovente
che fa chiudere gli occhi
che fa ancora paura ma così struggente
che riempie di sospiri la bocca.
Inginocchiati, Amore, trema, fammi tua,
dimmi a voce bassa chi sei,
che loro non sentano più,
che non sentano.
La mia casa di carne è un fiore.
Io non voglio appassire.
Tu, madre, sei soltanto un’ombra.
Tu, padre, una corda intrecciata.
La luna galleggia come una barca bianca
nel cielo nero.
Colei che sta al timone è del tutto ubriaca.
Ha bevuto il vino senza fine della notte.
E, dopo, è come se piangessimo.
Ma è che mi ha svestita poco a poco
e le pupille bruciano.
Qualcosa sanguina.
Facciamo, il mio corpo accanto al suo corpo,
uno stendardo di seta
più grande dell’ombra blu delle montagne
e lo cuciamo con i baci e le parole
come fosse il solo tra i sacri riti
da offrire all’altare della vita.
Adesso so che il corpo non può avere riposo,
che vivere è come una mano che afferra.
Un’acqua che affiora dal fondo della terra
ed ha bisogno di zampillare, furiosa.
Che tutto il resto è solo sonno vuoto.
Che di ogni cosa bisogna scrivere.
Perché la realtà si ricordi,
perché si sappia rispondere.
Che scrivere significa essere donne
assolutamente libere,
con la bocca piena di luce,
con tanti fiori che bucano l’oscurità
coprendo la ferita.
(di Franca Alaimo, da “7 poemetti”, Interno Libri Edizioni, prefazione di Giovanna Rosadini)
Franca Alaimo vive e opera a Palermo, dove ha insegnato materie letterarie. Esordisce nel 1991 con la silloge poetica Impossibile luna. Successivamente ha pubblicato altre venti raccolte poetiche, due delle quali in forma di e-book. Tra le più recenti: Elogi (Ladolfi), sacro cuore (Ladolfi), Oltre il bordo (Macabor), 7 poemetti (InternoLibri, 2022) È autrice anche di tre romanzi e di un epistolario. Ha lavorato nella redazione della rivista L’involucro di P. Terminelli, e, successivamente, in quella di Spiritualità & Letteratura, diretta da T. Romano e ha collaborato con La recherche, rivista on-line diretta da Maggiani e Brenna. Ha tradotto dall’inglese due brevi sillogi di Peter Russell. Ha pubblicato saggi sulla poesia di D. Cara, T. Romano, G. Rescigno, L. Luisi, F. Loi, V. Fabra e sui poeti dell’Antigruppo. Molto interessata alla letteratura contemporanea, ha firmato centinaia di recensioni, prefazioni e post-fazioni. È presente in molte antologie, blog nazionali e internazionali. Alcune suoi testi sono stata pubblicati su riviste (tra le quali Poesia di Crocetti, e Atelier di Ladolfi) e quotidiani italiani. Molti i riconoscimenti ricevuti nel corso degli anni. Nel 2020 è uscita con la casa editrice Macabor un’auto-antologia di testi poetici scelti dalle sillogi pubblicate fra il 1991 e il 2019.