. Poland. Gdansk. Shipyard. November 2004.
Mark Power, Gdansk (dalla serie The Sound of Two Songs)

 

Nella primavera del 1955 il ventenne marchigiano Massimo Ferretti stampò a sue spese una breve raccolta poetica, Allergia, e la inviò tra altri a Pier Paolo Pasolini quale redattore di «Officina». PPP rispose mesi dopo invitandolo a selezionarne alcune, e così sul numero di febbraio 1956 della rivista apparvero sei poesie da Allergia più un’inedita Lode d’un amico poeta.
Sul numero di luglio 1955 Ferretti aveva letto l’elegia pasoliniana I campi del Friuli («Ah, spesso l’esperienza / espande intorno più allegria, più vita, / che l’innocenza! Ma questo muto vento / risale dalla regione aprica / dell’innocenza… L’odore precoce e stento / di primavera che reca, scioglie / ogni difesa nel cuore che ho redento / con la sola chiarezza […]. Quel nostro darsi, insieme, a un gioco/ di pura passione, misura della nostra cruda / gioventù […]. Noi, non popolani, nella stretta / del popolo contadino, della magra / folla paesana, amati quanto / ci ardeva l’amare»), ed è in riferimento ad essa che tesse la Lode: «Tu sei della stirpe di chi vince: / il male che scalfisci non ti tocca, / la tua maturità non ha timori […]. La tribù degli eroi delle parole, / ripiegata sui freddi tavolini / dove la carta brucia nella penna, / si presta a certi sbagli disumani: / ed ecco i fumatori di matite, / i coppieri dei calamai ammuffiti, / gli alfieri delle “leggi” del partito, / i sacrestani delle muse benedette. […] Ma il tuo sangue non vive in questi lacci […]. E l’Italia salvata nelle origini / rivive nel profumo della luce: / ed ecco i fiumi inquieti dell’infanzia, / la cupa adolescenza delle ombre, / gli ardori consumati nel silenzio, / i passi svuotati nelle strade, / la costante follia della Chiarezza».
La corrispondenza continua poi per un anno intero: PPP ritiene il giovane un «fantastico mistero», Ferretti risponde che il suo unico mistero è un’endocardite reumatica; PPP insinua qualche critica («estetizzi, ti compiaci del maledettismo»), Ferretti ribatte («non recito nessuna parte da maledetto: non mi importa niente della poesia, anzi la odio») e chiede se a Roma potrà fare l’attore; PPP reagisce durissimo («Non fare il super-uomo, il solito poetastro rompicoglioni») esortandolo a continuare gli studi, salvo smorzare successivamente i toni («Ho esagerato un po’ nel fare il filisteo») e approvare a febbraio 1957 due nuove sue poesie (usciranno con altre di Arbasino, Pagliarani e Sanguineti sul numero di giugno di «Officina») nonostante lo «stranissimo biglietto» di accompagnamento imputabile a «orgoglio maledetto-provinciale», come scrive ai coredattori Leonetti e Roversi. 
Intanto, sul numero di novembre 1956 PPP aveva pubblicato Una polemica in versi, dove l’accusa agli intellettuali comunisti di essersi assuefatti «al voluto tacere, al calcolato / parlare, al denigrare senza / odio, all’esaltare senza amore» si accompagnava a un coming out: «dovrei tacere, non offrire il fianco, / non confessare che sono un ragazzo, / ancora, eternamente indifeso; / che non sempre la passione è grazia. […] Ho fissato col mio occhio inesperto / diventato atrocemente esperto – umile / fotografo che la notte inerte / batte dietro l’immoto miraggio del costume – / gli inutili angoli sperduti / del mondo, con qualche grido, qualche lume, / qualche parola di uomini venduti / nei più scuri mercati della vita. /Ne ho riportato attestati muti / d’allegria in cuore a una città nemica». La cosa non passò inosservata a Franco Fortini, che nel numero successivo, gennaio 1957, replicò con Al di là della speranza, coinvolgendo di striscio il laudatore Ferretti: «Nei vicoli biechi / e teneri ti sciogli, dell’afosa / notte di Roma, e poi torni e ti rechi / intatto al verso. Quella libertà / che ti perdoni, ad altri tu la togli / e del nulla sei complice e del male / del tuo popolo. A corte, poi, ti vale / leggere come l’anima disciogli / nei tuoi poemi in limpide querele, / fra chi, come te, sa. […] Quando tu lo chiedevi, io scrissi in odio / alla pietà che ti vinceva, in odio / a chi vanta nel verso tuo la Vita / miele dei morti e del peccato, vischio / che fa dolce la nausea e la pietà […]. Anima bella che si frusta! Il fuoco / d’essere abbietto e leccare il calcagno, / lo spasimo in protesi nervi, il roco / grazie e il devoto alito nel lagno / ultimo, tu lo sai bene, non è / se non rovescia furia d’infinito / potere».
Ferretti lesse sia la Polemica di Pasolini che la replica di Fortini solo nell’aprile 1957, e l’effetto della sua doppia lettura incrociata fu un’«Appendice all’Ode a un amico” (ossia alla Lode):


LA CANZONE DEL FILISTEO


Io non sapevo, e tu lo sai –
e credo che mai nessuno al mondo
ha odiato quanto me
la poesia.

Oh, cosa darei per uno specchio gigante:
che quando uno piange si vede che ride
e quando uno ride si vede che piange!

Proprio io, l’esperto di cose sessuali
che assediato da un gruppo di compagni
davanti al cinema assonnato
dove davano
La bambola di carne
ho tenuto un comizio di due ore
per spiegare tutti i segni fallici
e che t’avevo con gran disinvoltura
assegnato tutti i miei complessi
dei fatali malesseri del tempo
e della pena d’una vita infame,
non avevo capito un accidente.

Ma ora che vorrei tanto colpirti
con una crudeltà pari all’ardore
che mi spinse a distinguerti in un’ode
non trovo che parole di tristezza:
t’ho ammirato come un fratello superiore,
il fratello eletto andato avanti
nella dura conquista della vita:
ed io che in te ho cercato la salvezza
ora che mi ritrovo tanto salvo
non so cosa farei per aiutarti;
ma l’adolescenza ormai è un ricordo
e i suoi impulsi troppo generosi
hanno l’atroce luce dello sguardo
di chi da poco è diventato adulto:
e mi scopro veramente solo,
condannato a riaprire le ferite
per riprendere la forza del cammino.

Non giudico la forza del tuo male –
ma nella luce del tuo destino umano
ho perduto per sempre la mia fede,
la fede di credere nel mondo
ignorando il dolore di difendermi
dal cupo tarlo della diffidenza
che avvelena i palpiti più puri.

E se togliamo al canto la purezza
nell’età del romanzo funzionale,
che possiamo pretendere dai versi
che scriviamo per il mondo
e li leggiamo solo noi,
facendoci le corna e le moine,
troppo orgogliosi per sentirci in gruppo
e troppo vili per restare soli?

E per averti cantato dentro un grido
di chi ha patito tanto
da avere fiducia nel dolore,
ho dovuto subire l’invettiva
dei versi esangui d’un ideologo contrito:
io il miele me lo mangio sopra il pane,
e i miei peccati li sconto in questo mondo
dove nacquero e dove resteranno
implorati alla sacra maestà della Natura
e a lei ridati con grata devozione.

E poi verranno gli Specialisti dell’Acido:
ma a loro offro solo un muro
dove allinearli con molta simmetria
e fucilarli con una gran pisciata.

È un gioco allegro difendersi da loro,
ma per difendermi dalla mia coscienza
ho crocefisso l’ultima illusione.
E a costo di sventrare la panciera
a qualche pitonessa da salotto,
e di fare orinare nei calzoni
gli inibiti delle redazioni,
ma all’onestà non posso rinunciare,
alla forza di essere me stesso
nella chiarezza e nelle confusioni
nella paura e nel coraggio estremo
nella furia e nelle debolezze;
non posso rinunciare alla potenza
di distinguere la vita dalla morte,
il bene immoto dal male sempre vivo.

PPP riceve La canzone ai primi di giugno, e subito la gira ai coredattori: «ecco le ragioni del turbamento di Ferretti: ve le spedisco perché mio padre è curioso e legge tutta la mia corrispondenza». Ferretti incalza a fine mese: «Spedirò a Leonetti i miei versi che avete perso: quando me li chiese gli scrissi che non volevo che fossero stampati perché tu capisci che sarebbe stato molto disonesto da parte mia». Poi in dicembre incontra PPP a Roma, tra imbarazzi e delusioni che traspaiono da una lettera consuntiva del febbraio 1958: «avevo vent’anni e t’ho fatto diventare un eroe (“Tu sei della stirpe che vince”): questa è stata la mia grande colpa: e quando ho capito che anche per il mio eroe la passione non era grazia, è stato naturale reagire: e sono diventato un indegno filisteo, e sarebbe stato facile cavarsela con un sorriso imbarazzato. Tutto questo volevo dirti a Roma: e non ci sono riuscito: ma come potevo? Tra sfottiture, grotte, gatti neri, e cicalecci fantastici di signore vagamente onanistiche che vincono premi». E infine a giugno l’ultimo tentativo: «ti mando nella stesura definitiva la seconda poesia che ho scritto per te (La canzone del filisteo). Voglio che – rispettando il testo dal titolo alla data – tu la passi al più presto possibile a qualche rivista (eccettuate “Botteghe oscure” e “Tempo presente”). Ricordo che quando te la spedii non ti chiesi la pubblicazione ma da allora sono cambiate molte cose. Non ti chiedo un piacere: si tratta semplicemente di una delle solite “lettere scarlatte” che i giornali interessati sono obbligati per legge a pubblicare. Naturalmente tu non sei obbligato a niente: ma non ti sembra che stizzirsi proprio ora sia da una parte comodo e da un’altra stupido? L’Ode uscì su “Officina” un mese dopo che te l’avevo mandata: questa è un anno che ce l’hai ed è più bella dell’ode: lo hai scritto tu». La canzone rimase inedita, e fu anzi motivo di recrudescenza, stando a una lettera di Ferretti del primo luglio 1959: «Mi scrivi di capire tutto di me: e dimostri di non capire niente. 1) Il “desiderio di morire” appartiene alla tua psicologia, alla mia è del tutto estraneo. […] Io non sono mai stato il malatino che fa pena; ma un “che peccato!”, un’“incongruenza della natura”, un “atleta fallito”: ho sorbettato queste qualifiche per tutta l’adolescenza: dal più scalcinato medico di campagna, al grande clinico, al colonnello-medico della visita di leva. Se ho registrato il “sentimento della morte” l’ho fatto per celebrare la vita. Io ho sempre desiderato vivere: e più stavo male, più volevo guarire. 2) Né l’Italia né io siamo in pericolo per il mio presunto e potenziale fascismo: l’Italia ­ come sempre ­ è minacciata dalla sua sacra ed eterna Natura, io dall’Indifferenza. […] E tieni presente che ciò che io ho subito come si subiscono gli irrazionali fenomeni della natura, tu hai avuto modo di vederlo e capirlo: nel ’40 tu avevi diciott’anni, io cinque». 
Nel 1961 Ferretti si trasferì da Jesi a Roma, dove frequentò PPP con l’unico risultato di aumentare il parossismo fino al climax del primo giugno 1962, quando Ferretti per iscritto stroncò l’appena uscito racconto giovanile dell’antagonista: «Il sogno di una cosa è la prova folgorante – tu che sei ancora innocente a quarant’anni – che innocente non lo sei mai stato. […] E, molto stranamente, il tuo racconto più inesperto ha lo stesso ambiguo fascino di Accattone, il tuo racconto più esperto. Sono le storie purissime di un uomo meravigliosamente affascinato dal solo bene del mondo: la corruzione. Sii generoso, ti prego, tu che sei marxista, con la mia gioia decadente. Per conto mio, non mi resta che augurarti nuovi linciaggi, nuovi processi, nuovi guai: che l’ingiustizia pubblica possa riconsegnarti, intatta, la tua “sognante vita interiore” (Kafka)». PPP reagì a distanza di pochi mesi con Il sogno della ragione (compreso poi in Poesia in forma di rosa, 1964): «Ragazzo dalla faccia onesta / e puritana, anche tu, dell’infanzia, / hai oltre che la purezza la viltà. / Le tue accuse ti fanno mediatore che porta / la sua purezza – ardore di occhi azzurri, / fronte virile, capigliatura innocente – / al ricatto: a relegare, con la grandezza / del bambino, il diverso al ruolo di rinnegato. […] L’alibi della speranza dà grandezza, / ammette nelle file dei puri, di coloro, / che, nella vita, si adempiono. / Ma c’è una razza che non accetta gli alibi, / una razza che nell’attimo in cui ride / si ricorda del pianto, e nel pianto del riso, / una razza che non si esime un giorno, un’ora, / dal dovere della presenza invasata, / della contraddizione in cui la vita non concede / mai adempimento alcuno, una razza che fa / della propria mitezza un’arma che non perdona. / Io mi vanto di essere di questa razza. / Oh, ragazzo anch’io, certo! Ma / senza la maschera dell’integrità». 

Ma non finì così, a conferma di una ferita mai chiusa: nel 1974, anno della morte sopraggiunta per crisi cardiaca, Ferretti lavorava a un racconto autobiografico con a fulcro l’incontro con PPP, scandito nelle sue tre tappe: Allergia, Lode d’un amico poeta, La canzone del filisteo.

Il dattiloscritto della commedia, intitolata Credito per un delirio, era stato spedito in plico raccomandato senza lettera di accompagno. Maletto aveva scritto semplicemente sopra la didascalia dell’Atto I: “a Osbert Owen Odds – con simpatia”. Maletto aveva compiuto vent’anni e tredici giorni; Odds ne aveva trentatrè da un paio di mesi. Il protagonista era un anarchico, chiamato Puck, che si era volontariamente lesionato le possibilità di parola per protestare contro il fragore neoimperialistico del Sistema. […] Puck adoprava il proprio membro virile, opportunamente mantenuto in erezione da una giovanissima collaboratrice, come un pennello. Puck scriveva infatti soprattutto sopra i muri, immergendo il membro dentro barattoli di vernice. Verso la fine del secondo Atto, Puck si accorgeva che la sua lotta non era vana, ma che lo strumento della sua lotta (la scrittura e la pittura murali) stavano per essere fagocitati dal Sistema come “arte”. Nell’Atto III (c’è un siparietto gustosissimo sul premio che una commissione di esperti gli aveva assegnato) Puck smetteva di pennellare. Alla fine i barattoli vuoti sommergevano tutto, finché Puck lanciava la sua prima e ultima parola: “culo”. […] Odds rispose – con un telegramma affettuoso: “Sei un mistero appassionante”. È sicuro che il secolo XX sarà ricordato per due fatti ineffabilmente distanti: i primi tentativi di esplorazione spaziale da parte di comunità terrestri e l’epistolario tra Maletto Trunkful e Osbert Owen Odds. Stralciare da tale carteggio sarebbe impresa temeraria. La velenosa forza di persuasione del ventenne Trunkful, che iniziava ogni lettera con un gelido “mio caro professore” cui faceva seguire esempi convulsi di scrittura automatica, è un monolito così cosmico che sarà oggetto di pellegrinaggio erudito per molti secoli a venire. La vena didattica di Odds è molto più convenzionale; di livello minimo la sua dolcezza oratoria; spesso abominevole il tono delle lodi. Frasi come “sei una statua nera” o frammenti come “prepotente originalità”, “prematura maturità” e simili vanno sepolte dentro molta sollecita compassione. Più originale la sua tensione a crearsi un utero, sia pure ipoplastico e anteflesso. Ma non bisogna smettere di tener conto che tutto il mondo civile sapeva che Odds era un omosessuale evoluto e praticante, mentre Maletto Trunkful neanche lo sospettava. Individuare il codice delle ipotesi ricorrenti nella mente di Odds sul suo giovane corrispondente sembra fatica possibile anche a un giornalista televisivo. Odds credeva di essersi imbattuto in un altro se stesso, con tredici anni di meno, molta più ferocia nell’addentare la vita, una luminosa mancanza di timidezza, una brutalità candida, una volontà spietata di violare quel museo che era il mondo vigilato dai Custodi del Sistema. È probabile che abbia esitato in qualche mattino di nebbia: frasi come “Beato te che hai tutto il mondo da scoprire” o accenni disarmati al “caos della tua giovinezza” lasciano margini al dubbio come al rimpianto e all’invidia. […] Trunkful scrisse al suo amico Odds che stava imparando cos’è l’infelicità. Odds rispose a giro di posta che avrebbe messo in scena la prossima primavera Credito per un delirio. La lettera finiva con una carezza di conforto: “Non sentirti in esilio. Da per tutto i vent’anni sono legati al desiderio di morte”. Maletto non tradusse quel brano a nessuno: sapeva con certezza che non aveva alcun desiderio di morire.

Gli occorreva un fuggevole segno di orrore o di cupa ammirazione d’una collettività più vasta o più duramente politica. In quell’opaco pomeriggio di aprile, mentre fischiava Mozart, Maletto scrisse Ditirambo per O.O.O., pantomima tragica in un atto. Era un’azione scenica celebrativa dove il rifiuto di Odds ad incarnarsi in una figura convenzionale (quella del romanziere, per es., o del regista cinematografico, o del poeta civile, o dell’autore teatrale, o anche del giornalista televisivo) per assumere l’inquietante ruolo dell’Attore del varietà culturale dell’epoca, era reso con un ritmo minacciosamente limpido. Le parti più propriamente danzate erano quelle dove Osbert Owen Odds sconfiggeva le tentazioni del Sistema, smascherando ogni forma infamante di successo. […] La risposta di Odds fu immediata e raggiante. Scriveva che il prossimo sabato avrebbe messo in scena il Ditirambo a Nairobi. Il passo finale della lettera era intensamente lirico: “per farti riconoscere non venire con un teschio in mano, vieni con una rosa: la vecchia rosa, per te nuova”. […] Il giovane Trunkful manifestò violenti sintomi allergici verso ogni tipo di scrittura. Il primo a subirne le conseguenze fu il mite Odds che in risposta a una sua interrogativa cartolina illustrata si vide arrivare un biglietto bianco dove era scritto soltanto: “Ho appreso dai giornali che sei un pederasta. La cosa non mi ha meravigliato. Però non lo sapevo e penso che avresti fatto bene a spiegarti prima”. Della replica di Odds solo l’inizio esclamativo (“Ma sei proprio un bambino!”) era dignitoso. Poi tutto rotolava verso abissi televisivi di volgarità (“tu forse hai idee preconcette sull’argomento”), oscene spiegazioni non sollecitate che cominciavano con frasi come questa: “Il solo e semplice fatto che amo i ragazzi anziché le donne”, frammenti sentimentalmente intimidatori (“i colpi e le ansie che tu patisci – con tanta liberazione di energia e rovello morale – con le donne, io li ho patiti di fronte a un oggetto che li rendeva infinitamente più dolorosi, spesso intollerabili”). La lettera si concludeva con un rovinoso consiglio da negoziante progressista: “leggi Freud: le cose assumeranno un aspetto scientifico con l’annesso distacco e l’annessa serenità”. Maletto Trunkful aveva avuto la sordida sfortuna di non aver mai abitato nei tre edifici più favorevoli a un proficuo apprendistato omosessuale: il collegio, la caserma, la prigione.

La stesura di Against, balletto verbale in due tempi, presentava difficoltà non previste: la combinazione delle pacate dichiarazioni degli omosessuali socialdemocratici con le sibilanti frasi gridate, in fase di orgasmo, dalle donne dei braccianti in rivolta produceva fasce verbali non sufficientemente ritmiche […]. Il ragazzo dormiva ogni notte con la guancia sinistra distesa sulla macchiata copertina di cartone di Against. […] Nella pagina del titolo aveva scritto con una intorpidita mano sinistra: “Caro Odds, leggimi e mettimi in scena al più presto possibile. Sono giovane e bello, ho fretta di tutto, e sono felice”. Odds rispose come se un figlio cattivo gli avesse detto: “io sono splendente e tu ci vaneggi sopra da più di un anno. Ma sta’ certo, questo incesto non si farà: né ora né tra un momento”. Non parlò affatto di Against ma solo di se stesso.

Foto del testo con l'unico inserto a mano e la nota. db
Foto del testo con l’unico inserto a mano e la nota. db

Ringrazio Maurizio Ferretti per avermi autorizzato a pubblicare La canzone del filisteo; gli altri materiali ho ripreso da Massimo Ferretti, Lettere a Pier Paolo Pasolini e altri inediti, a cura di M. Raffaeli, Centro culturale polivalente Comune di Chiaravalle, Chiaravalle 1986, e Pier Paolo Pasolini, Lettere 1955-1975, a cura di N. Naldini, Einaudi, Torino 1988. Da vedere comunque Franco Fortini, Attraverso Pasolini, Einaudi, Torino 1993, e Elisabetta Pigliapoco, Fuori dal coro. L’opera di Massimo Ferretti, Ancona, Edizioni peQuod, 2005.

[approfondimento del testo, a firma dello stesso autore, “Il giovane Ferretti”, tysm n. 4, 2011]

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